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Uno juventino a Roma, cronaca di una fede solitaria

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Sono stato cattolico praticante fino ai quattordici anni, ateo fino ai trentasei e ad oggi pratico il buddismo da quasi dieci anni. Ho votato per così tanti partiti e simpatizzato per movimenti extra parlamentari che neanche riesco a ricordarli. Ho suonato in situazione che riproponevano i Clash, Mozart, gli Iron Maiden, Puccini, Count Basie, Chuck Berry, Jobim, Fred Buscaglione e via dicendo. Una cosa però ha fermamente contraddistinto la mia identità: sono sempre stato Juventino.
Lo ricordo come se fosse ieri: era estate, avevo cinque anni e stavo in bicicletta con mio fratello di nove e mio cugino di sei mesi più grande di lui. Mio fratello Luca disse: «Io sono della Roma» e mio cugino rispose: «Io della Juve». Non sapevo neanche cosa fossero la Juve e la Roma, ma sapevo che mio cugino era l’unico in grado di mettere in riga Luca quando, come spesso succede tra fratelli, mi riempiva di mazzate. Da ciò è facile evincere che non presi questa decisione perché la Juve vince sempre, ma per desiderio di autonomia da mio fratello.

E siccome, se si eccettua il caso di Emilio Fede, non è dato conoscere persona che abbia cambiato la squadra per la quale tifava, eccomi qui juventino, anzi peggio: Uno juventino romano. E come tale sono cresciuto.

Essere Juventino a Roma, come da anni racconta egregiamente Massimo Zampini, non è cosa facilissima. L’ anno dello scudetto di Falcao frequentavo la prima media. Il giorno dopo la finale persa con l’Amburgo, ad aspettare noi (tre) Juventini c’era tutta la scuola (e a quei tempi alle medie si bocciava e quindi c’era un nutrito manipolo di sedicenni che guidavano il motorino o anche il 125). Per entrare siamo passati tra due ali di folla che ci prendeva a mazzate urlandoci di tutto e di più.
Per contro altare, anche le vittorie più clamorose o inaspettate le ho passate da solo. Il 5 maggio per esempio stavo a casa di mia cognata a Ostia, la Juve a Udine andò subito sul 0-2, a quel punto mi misi a seguire Lazio-Inter. Il resto della famiglia uscì per andare al mare. Io mi ritrovai da solo a pensare: «Incredibile, abbiamo vinto uno scudetto. Vabbe’, ‘n artro».
E così negli anni ho maturato uno stile compassato, non gioisco, non esulto. Anche se vinciamo 3-0 col Barcellona non muovo un muscolo fino a che l’arbitro non fischia la fine.
Sarà difficile crederci per i tifosi di altre squadre, ma a me essere Juventino ha causato sicuramente più delusioni che gioie. Vuoi un po’ perché da che seguo il calcio la Juve ha vinto 16 scudetti, la mia ossessione, come per la maggioranza del popolo bianconero, è mettere le mani su quella dannata coppa. Quindi venirmi a dire che sono Juventino perché mi piace vincere facile è quanto meno fuori luogo.
Da che seguo il calcio ho perso cinque finali di Champions. Quando è nato mio figlio ho dovuto scegliere se motivarlo a tifare la mia squadra ed essere odiato dai miei\suoi concittadini («rubbate», «er sistema», «e Moggi!?») o garantirgli un futuro con molte meno vittorie, ma con la possibilità di condividerle con i suoi amici non ho avuto dubbi e l’ho orientato verso la Roma di cui ora è un gran tifoso. Quindi premesse tutte queste cose, potrò però essere contento se a un certo punto, una dirigenza accorta (e vi dico che il giorno che Agnelli annunciò l’ultima stagione di Del Piero non la presi molto bene, in fondo lui era la Juve. Che aveva fatto per noi Andrea Agnelli? Beh, ora “qualcosina” l’ha dimostrata) ha pazientemente ricostruito una squadra (ricordo il centro campo con Pirlo, Marchisio, Vidal e Pogba è costato meno di Destro e molto meno di Bacca), una mentalità.

Non era così scontato dopo i due settimi posti. Era una squadra inguardabile, i pezzi pregiati del mercato estivo (Diego e Felipe Melo) si erano rivelati del tutto inadeguati. Buffon era sull’orlo di una crisi di nervi, Bonucci non ne parliamo. Per tutt’e due le stagioni nel finale c’erano anche due o tre partite in cui non si riusciva a fare, non dico un goal, neanche un cross teso da fondo campo. Un po’ tipo l’odierna Inter.
In quegli anni non c’era nessuno che si lamentava degli arbitraggi pro Juve.
Ora immaginate se fosse arrivato qualcuno che vi avesse detto che quella squadra avrebbe vinto i prossimi sei campionati, tre coppe Italia e disputato due finali di Champions, gli avreste creduto?Vorrei vedere quanti tra i miei concittadini che mi rimproverano l’assenza di “amore territoriale” da parte degli Juventini siano in grado di sapere la peculiarità e dove si trova San Girolamo della carità, quanti abbiamo mai visitato il cimitero dei Cappuccini a Via Veneto e via via salendo quanti sappiano dire con certezza di chi è il campanile di S. Ivo alla Sapienza e quante volte abbiano visitato le stanze di Raffaello. Quanti di costoro sanno che Palestrina era il “principe della musica”? Quanti hanno mai sentito nominare gli oratori di Carissimi e conoscono l’avventurosa vita del suo collega Alessandro Stradella che grazie a una messa inscena a Roma ebbe di fatto la vita salva?
Perché per loro forse l’amore per il proprio territorio si base sull’identificazione in un club di uno sport (tanto è solo questione di tempo, in previsione di un campionato unico europeo prima o poi gli investitori sempre meno legati al tifo inizieranno a spostare le squadre in altre città sul modello del NFL americano), per me sull’empatia con gli abitanti (ho fatto de mi’ fijo ‘n romanista vero) e sulla conoscenza della storia e del territorio stesso.

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Federer vince Wimbledon per l’ottava volta

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Roger Federer quando è sceso sul capo di Wimbledon aveva un solo pensiero: vincere ed entrare nella leggenda. E così è stato. È ritornato a vincere a 36 anni per l’ottava volta (2003, 2004, 2005, 2006, 2007, 2009, 2012, 2017) il torneo più prestigioso del circuito mondiale a distanza da cinque anni dall’ultima volta. Ha centrato il suo 19esimo titolo slam della sua carriera e il secondo di questa stagione indimenticabile dopo l’Australian Open. Purtroppo il suo avversario Marin Cilic non è mai stato in partita, complice anche un fastidiosissimo e dolorosissimo problema al piede. Federer così non ha avuto grossi problemi a chiudere il match (6-3, 6-1, 6-4) che lo ha consacrato per sempre nella leggenda del tennis mondiale di tutti i tempi.

Con questa vittoria Roger Federer diventa il quinto uomo a vincere senza mai perdere un set dopo Don Budge (1938), Tony Trabert  (1955), Chuck McKinley (1963) e Bjorn Borg (1976). Questa finale con Cilic è stata la sua partita numero 102 al Championship, eguagliando Jimmy Connors: di queste, lo svizzero ne ha già conquistate 91. Federer diventa a 35 anni e 343 giorni il più anziano campione di Wimbledon nell’era Open dopo Arthur Ashe, vittorioso nel 1975 a 31 anni e 360 giorni. Infatti in 131 anni di storia, solo quattro tennisti hanno vinto dopo aver compiuto 35 anni: Arthur Gore ne aveva 41 quando vinse nel 1909 e 40 quando trionfò nel 1908, Bill Tilden ne aveva 37 quando vinse nel 1930, Norman Brookes e Herbert Lawford ne aveva 36 rispettivamente nel 1914 e nel 1887. E in più Federer stabilisce il nuovo record assoluto rivincendo Wimbledon a 14 anni dalla prima voltaQuesto Wimbledon è il 19^ torneo dello Slam della carriera, il secondo del 2017 dopo gli Australian Open. Lo svizzero da lunedì tornerà al numero 3 del ranking Atp.

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Le follie dei club per i gioielli del gol

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Sono cambiate le cifre, ma la valanga di euro che fa girare il mondo del calcio tiene ormai aperto il dibattito da anni. «I giocatori sono troppo pagati» e «non si possono spendere tutti questi soldi per un calciatore» sono le frasi che si ripetono, in loop, una volta nei bar e oggi sui social. Dibattito ravvivato dalle ultime spese pazze del Psg: la Qatar Sports Investment per rinforzare la squadra di Emery – delusa lo scorso anno per non essere riuscita a conquistare non solo la Champions, ma nemmeno la Ligue1, il campionato francese – ha deciso di aprire il portafogli. Un portafogli che eroga soldi come un distributore di benzina. E se in Italia a tener banco è stato il discusso trasferimento di Bonucci dalla Juve al Milan, nel mondo quello di Neymar ha battuto ogni record. Il campione brasiliano, l’ultimo erede di Pelè, Zico e via discorrendo, si è trasferito da Barcellona all’ombra della Tour Eiffel per una cifra davvero mostruosa, ben 222 milioni di euro. Nessuno mai aveva speso così tanto nel mondo del calcio. Guadagnerà nei prossimi 5 anni 60 milioni a campionato, facile fargli i conti in tasca. Il valore del calciatore non lo discute nessuno, così come le motivazioni che lo hanno spinto a uscir fuori dall’ombra di Messi per essere l’unico, vero, grande protagonista altrove. Alla fine, probabilmente, saranno tutti contenti: il Psg potrà coccolarsi un nuovo campione, il giocatore è atteso da una nuova emozionante sfida e il Barcellona con quella somma potrà comprare altri 2- 3 campioni per rinforzare la squadra. In più, aggiungiamo, gongolerà il fisco francese. Anche perché a quanto pare il Psg non ha intenzione di metter freno alle sue spese pazze e ha messo sul piatto altri 180 milioni di euro per strappare il campioncino Mbappè ( cercato pure dal Real Madrid) al Monaco. Un altro funambolo, un altro probabile acquisto a somme mostruose.

C’è da dire che queste cifre esorbitanti stanno caratterizzando il calciomercato dell’ultimo decennio, mai prima ci si era spinti così in alto. Pensiamo ad esempio all’affarone fatto dalla Juventus con la cessione di Paul Pogba. L’asso francese è tornato al Manchester United per 105 milioni di euro e i bianconeri si sono fatti una ragione della sua cessione realizzando una plusvalenza record. Pogba infatti era arrivato in Italia a parametro zero proprio dai Red Devils. Con quella somma, tra l’altro, la Juventus ha potuto finanziare quello che oggi è il trasferimento più costoso nella storia della serie A, ovvero l’acquisto di Higuain dal Napoli per 90 milioni di euro. Un colpo che ha reso ancor più netto il divario tecnico tra i bianconeri e le altre squadre del nostro campionato, che difficilmente possono e potranno permettersi ( forse Milan a parte…) trasferimenti così costosi.

E pensare che una volta in Italia ci si scandalizzava per somme ritenute alte e inique. Pensiamo ad esempio al trasferimento record di Angelo Sormani dal Mantova alla Roma, stagione 1963- 64. I giallorossi sborsarono 500 milioni delle vecchie lire per poter disporre del ‘ Pelè bianco’ ( aveva infatti giocato nel Santos ad inizio carriera), ma l’investimento fu infruttuoso. Dopo appena una stagione, giocata al di sotto delle sue possibilità, infatti Sormani fece le valigie e passò alla Sampdoria. Fece inorridire i napoletani, in un periodo di grandi difficoltà economiche e sociali, l’acquisto di ‘ Mister due miliardi’ Beppe Savoldi nel 1975. Tanto infatti spese il club partenopeo per strappare al Bologna uno dei bomber più prolifici della serie A. Una somma che alla fine fu ripagata non soltanto dai gol del centravanti, ma anche dalla passione dei tifosi che si abbonarono in massa per vedere da vicino ( anche) le prodezze di questo grande campione. Napoli che, negli anni Cinquanta, aveva già visto il presidente Lauro spendere la bellezza di 105 milioni per portare in azzurro lo svedese Jeppson. L’Atalanta, che lo aveva pagato appena 50mila dollari, fu ben contenta anche di assecondare la volontà del giocatore, attirato dal mare e dal clima più mite del Sud Italia. Senza dimenticare poi l’acquisto di Maradona dal Barcellona negli anni Ottanta, 13 miliardi e mezzo delle vecchie lire, una somma mostruosa per l’epoca. Soldi, comunque, ben spesi guardando poi ai risultati.

Tornando ai giorni nostri, chi invece storicamente ha sempre grandi disponibilità economiche è il Real Madrid, e non è un caso che nella top ten degli acquisti più onerosi della storia del calcio il club spagnolo sia spesso presente. Per prendere Gareth Bale dal Totten- ham, ad esempio, il Real non si è fatto alcun problema nello spendere la bellezza di 100 milioni di euro. Così come non se ne è fatti quando ha voluto prendere James Rodriguez dal Monaco per 75 milioni. Chissà se qualche dirigente si è poi mangiato le mani ed ha avuto rimpianti per questa cifra spesa. Rimpianti che nessuno invece avrà mai avuto per i 94 milioni che hanno consentito a Cristiano Ronaldo di accasarsi in Spagna dal Manchester United. Un investimento importante, vero, ma ben ripagato nel corso degli anni, se pensiamo a tutte le prodezze del campione portoghese che hanno portato il Real a vincere più volte il campionato spagnolo ma, soprattutto, quelle Champions League che fanno delle merengues un club leggendario. Anche il Barcellona non è stato da meno: nel 2013 portò in Spagna Neymar dal Brasile per circa 88 milioni di euro, poco meno ha speso per prendere il ‘ Pistolero’ Suarez dal Liverpool. Di Maria, Lukaku, Coutinho e gli altri, poi, varranno poi davvero così tanti soldi? Questo importa poco ai tifosi e agli allenatori, che in fondo chiedono soltanto di veder realizzati i propri desideri. Il calcio di oggi, se ci pensiamo bene, non è poi così diverso da quello di volta. Non ci sono più le lire, le pesetas, i franchi, ma è ( quasi) sempre il dio denaro a muovere tutto.

 

 

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Parte il Fantacalcio: siamo tutti presidenti e direttori sportivi

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Serbatoio pieno, automobile carica di ogni grazia di Dio. È Ferragosto, il giorno prediletto per una gita al mare o in montagna, con gli amici di sempre. Quale occasione migliore allora per la tanto attesa asta del Fantacalcio? È uno dei momenti topici dell’estate per i calciofili incalliti, quelli che hanno passato queste settimane a rincorrere l’ultima voce di calciomercato, perché «questo lo vorrei prendere nella mia fantasquadra a tutti i costi». Sullo sfondo mogli e fidanzate che sbuffano, e non per il caldo. Esasperate per una passione che niente e nessuno può ostacolare.

Il Fantacalcio, del resto, fa parte di noi e delle nostre vite ormai da qualche anno. È una sorta di rito del quale non si può proprio fare a meno. E che, specie in questi anni dove ormai la maggior parte delle persone non fa altro che guardare lo schermo di un telefonino con l’indice teso per ‘ scrollare’, facendo uno sfrontato paragone con i riti religiosi dei quali ci parlava Emile Durkheim, è in fondo uno dei modi migliori per rafforzare la coesione sociale tra persone che fanno parte di uno stesso gruppo e che, proprio per questo motivo, condividono interessi comuni e il più delle volte – anche status sociale. Perché, nel bene o nel male, si trascorrono delle ore insieme. Stesi su un telo in spiaggia, oppure seduti più o meno compostamente attorno ad un tavolo, questo è un fattore sicuramente secondario. Certo, c’è anche chi decide di isolarsi – o ha una compagnia non appassionata di calcio – e di partecipare ad uno dei tanti concorsi che vengono proposti dai giornali (Gazzetta dello Sport in primis) e dai siti specializzati. Ma questo è un altro discorso.

Il Fantacalcio è ormai maggiorenne da un pezzo, è nato nel 1990 da una idea di Riccardo Albini. Guardando a quello che negli Stati Uniti era un semplice passatempo per gli amanti del baseball, Albini iniziò a pensare ad un regolamento, a stilare la lista dei giocatori e cominciarono così a crearsi le prime fantasquadre. Il vero boom il Fantacalcio ovviamente lo conobbe nel momento in cui fu ospitato sulle pagine della Gazzetta dello Sport ( 1994), raccogliendo un successo di pubblico inatteso. Un numero di partecipanti che è continuato a crescere esponenzialmente nel corso degli anni, ancor di più – logico – quando con l’avvento di internet ogni appassionato di calcio ha potuto concorrere contro ‘ rivali’ sparsi in ogni angolo dello Stivale, fruendo anche di appositi portali che raccolgono e divulgano pure statistiche alle quali prima si interessavano soltanto i maniaci del pallone. Le regole? Diciamo che nel corso degli anni sono state un po’ modificate e adattate anche al “contesto”. Quando si gioca in gruppo, ad esempio, si può modificare il budget iniziale ed eventualmente proporre delle interessanti varianti. Sembra quasi di stare in un’aula della Camera a discutere di un emendamento. Ogni giocatore, ad ogni modo, ha a disposizione un budget iniziale da gestire con la massima oculatezza. L’obiettivo è quello di ogni direttore sportivo, vale a dire costruire una rosa di calciatori ( generalmente 23 o 25) con i crediti a disposizione. Portieri, difensori, centrocampisti e attaccanti: bisogna cercare prima di tutto di scegliere dei giocatori che siano sempre titolari nella loro squadra di club, che magari abbiano dei buoni voti e che riescano a conquistare dei bonus ( assist e gol). Allo stesso modo bisogna essere bravi a non scegliere calciatori fallosi, che penalizzano il risultato finale con punti di malus ( ammonizioni, espulsioni, rigori falliti). È un gioco semplice, direbbe qualcuno. Potrebbe sembrare, ma così non è. Ad ogni modo, se è vero che l’Italia è il paese dei 50 milioni di commissari tecnici, perché non provate anche voi? All’asta del Fantacalcio, il vero momento clou dell’estate, rientra in scena di nuovo un concetto, quel- lo secondo il quale la vita quotidiana non è altro che una rappresentazione teatrale, dove ogni persona indossa dei costumi di scena e una maschera. Il sociologo canadese Erving Goffman non ha mai giocato al Fantacalcio, ma forse oggi si farebbe una risata nel guardare chi, forte della sua preparazione calcistica, cerca di mostrarsi davanti agli amici come un presidente in erba. Oppure chi, per non far lievitare troppo i prezzi, simula in maniera goffa di disinteressarsi assolutamente dei giocatori della sua squadra del cuore.

Le scene sono trite e ritrite, perché ormai all’interno di un gruppo ci si conosce a menadito, ma forse il bello è proprio questo. Il banditore d’asta ha in mano il listone, con tutti i calciatori della serie A, e li chiama ad uno ad uno, aspettando un’offerta. L’amicizia, in queste ore di battaglia vocale e psicologica, non conta più nulla, l’importante è accaparrarsi i pezzi migliori, come negli affari veri. Ci si parla sopra, vola via qualche imprecazione, ma si ride di gusto e si trascorrono delle ore indimenticabili, che si ricorderanno volentieri in futuro, in attesa ovviamente dell’asta di riparazione invernale. È per questo motivo che il Fantacalcio è così amato in Italia, è un filo sottilissimo e leggero che lega tante persone, le accomuna, le tiene vicine anche quando sono lontane centinaia di chilometri.

E nel giorno di Ferragosto, se passerete una giornata in gruppo, ecco un’ultima raccomandazione: tra bibite e salsicce, tra birre e panini e l’immancabile anguria non dimenticate di portare con voi la ‘ vecchia’ carta, la lista dei giocatori e una penna. Potrebbero tornavi utili. E buon divertimento.

 

 

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Gino Bartali, quel naso triste come una salita

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«Hanno sparato a Togliatti». È un attimo e tutta l’Italia sa la notizia. È un attimo e le fabbriche si fermano, le piazze si riempiono di operai, si assaltano e distruggono sedi dei partiti. È un attimo e i partigiani vanno a prendere i mitra Sten che hanno tenuto nascosti. Genova, Milano, Torino sono già in fiamme, ma anche Napoli e Taranto. È il 14 luglio del 1948, un’estate torrida. Un’estate da insurrezione, da guerra civile. In poche ore ci sono quattordici morti e trecento feriti, e saranno di più nei giorni successivi. Un giovanotto catanese, Antonio Pallante, se n’è partito dalla sua città siciliana e se n’è venuto a Roma per sparare a Togliatti. L’ha aspettato davanti a Montecitorio, e quando il leader comunista ne è uscito con al fianco Nilde Iotti ha tirato fuori il suo revolver comprato al mercato nero per millecinquecento lire e gli ha tirato quattro colpi: uno alla schiena, uno alla nuca, uno al braccio, l’altro finito in un cartellone. Le pallottole sono di tipo scadente e a bassa penetrazione, e non saranno mortali. Ma questo si saprà dopo. Adesso Togliatti è a terra in una pozza di sangue. Sono le undici e trenta. I giornali escono in edizione straordinaria con titoli a 9 colonne: «Togliatti colpito a morte in Piazza Montecitorio».

Il ministro dell’Interno, il democristiano Scelba, mostra i muscoli e manda l’esercito a presidiare strade e piazze: fa sapere che è pronto alla guerra. Ma Alcide De Gasperi, il capo del governo, telefona in Francia. C’è il Tour in Francia.

– Monsieur Bartalì, au telephone s’il vous plait… – Pronto?

– Pronto, Gino, ciao, sono Alcide De Gasperi, ci davamo del tu una volta… È il 14 luglio 1948, e il Tour quel giorno riposa. Bartali è sulla spiaggia davanti all’albergo a Cannes. Seduto sulla sdraio fuma una sigaretta dopo l’altra e disegna sulla sabbia la tappa del giorno dopo, le salite, i punti in cui avrebbe potuto attaccare.

Bartali sapeva dell’attentato a Togliatti, tutti lo sapevano e poi quasi tutti gli inviati dei giornali erano stati immediatamente richiamati in patria.

De Gasperi venne subito al punto.

– Gino, puoi vincere il Tour?

Bartali non stava andando bene, in classifica era indietro e venti minuti di distacco lo separavano da Louis Bobet. Ha trentaquattro anni, non è più un ciclista di primo pelo, e milioni di chilometri nelle gambe. Gino fu schietto, come era la sua natura.

– Eccellenza, il Tour non lo so, ma la tappa di domani la vinco.

La “tappa di domani” sono in realtà due tapponi massacranti consecutivi: la Cannes- Briancon e poi la Briancon- Aix les Bains. Quello che combina Bartali su quelle salite è ormai leggenda, mito, storia. Vola da solo sull’Izoard e lascia a bocca aperta i francesi. Il giorno dopo vince nuovamente, conquistando la maglia gialla. Oh, quanta strada nei miei sandali / quanta ne avrà fatta Bartali / quel naso triste come una salita / quegli occhi allegri da italiano in gita / Io sto qui aspetto Bartali / scalpitando sui miei sandali / da quella curva spunterà / quel naso triste da italiano allegro.

La notizia arriva in Italia nel pomeriggio. Il deputato Tonengo, piemontese, democristiano, annuncia a Montecitorio che Bartali ha stravinto la tappa decisiva del Tour: applausi, evviva, la tensione sembra attenuarsi. Nel paese ci sono cortei festosi. Togliatti, appena sveglio dall’intervento che lo ha salvato, chiede come sia andata la tappa al Tour: è un appassionato di ciclismo, e di calcio – tifa per la Juventus – come tutti gli italiani.

Il 16 luglio del 1948 esiste una sola notizia per i giornali italiani: Gino Bartali ha vinto al Tour De France. La guerra civile è scongiurata. Gino Bartali ha salvato la patria.

Bartali, il Tour poi lo vinse, dieci anni dopo che aveva vinto il primo, nel 1938. E fu l’ultima delle sue vittorie importanti, che comprendevano tre Giri d’Italia ( nel 1936, nel 1937 e nel 1946), quattro edizioni della Milano Sanremo e tre Giri della Lombardia. Chiuse la sua carriera nel 1954.

Era un uomo semplice, Bartali, una famiglia povera di origini contadine, toscano. Un caratteraccio, con la battuta sempre pronta e le frasi spigolose: lo soprannominarono Ginettaccio. Con quel suo tormentone che lo seguirà tutta la vita: «Gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare» – il su marchio di fabbrica. Il suo ciclismo era di forza, di grinta, di tenacia: leggendaria fu la rivalità con Fausto Coppi, l’Airone, che peraltro aveva iniziato da gregario proprio con lui, più giovane di cinque anni; quanto l’uno sembrava andare avanti a sudore, senza arrendersi mai, l’altro era l’eleganza, la bellezza, un talento che sembrava soprannaturale. Ma erano di più che due modi di stare in bicicletta, erano proprio due mondi – l’uno ancorato alla terra e alla fatica, l’altro che sembrava più adatto alle luci della città e della ribalta; l’uno democristiano in una terra rossissima, l’altro “arruolato” dalle bandiere rosse. Era un’Italia così, in bianco e nero, le strade impolverate, la gente che urla ai bordi, loro che si sfidano e affrontano a colpi di pedale. Eppure, rimane storica una foto che li ritrae mentre l’uno passa la borraccia dell’acqua all’altro. Era il Tour del 1952, nella tappa tra Losanna e Alpe d’Huez durante la salita del passo del Gabilier e Coppi era in maglia gialla. Ma Gino Bartali, in realtà, fu molto di più di un campione di ciclismo, fu un uomo coraggiosissimo, un eroe schivo, ma di grande umanità, che mise più volte a rischio la propria vita e quella della sua famiglia per salvare numerosi perseguitati dal regime nazifascista.

Il cardinale di Firenze, Elia Dalla Costa, amico e guida spirituale di Bartali, aveva organizzato una rete clandestina per fornire documenti falsi a ebrei e altri perseguitati nascosti in Toscana e Umbria. Non solo Bartali fu uno degli anelli più importanti della catena di salvataggio, ma lui stesso ospitò clandestinamente una famiglia di suoi amici ebrei.

Nel 2013 è stato dichiarato Giusto tra le nazioni. Proprio un campione di un altro mondo.

 

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Fausto Coppi, un uomo solo al comando…

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“Su questa vetta Fausto Coppi esaltò il ciclismo”. Sono innumerevoli le cime che hanno visto arrivare il Campionissimo “uomo solo al comando”, ma quella scritta ha un sapore particolare. Non è sul Mortirolo, sullo Stelvio o sul Gavia. È in costiera amalfitana, sulla terrazza di Bomerano, nel comune di Agerola. Lì, a strapiombo sul mare, c’è il sentiero degli dei che incoronò Fausto Coppi nell’Olimpo. Un percorso di straordinaria bellezza, con un panorama che fa viaggiare lo sguardo da Praiano fino a Punta Campanella, con l’arcipelago a forma di delfino di Li Galli, tra Positano e Capri, buen retiro di Eduardo e Rudolf Nureyev. Era il 3 aprile del 1955 e si correva il giro della Campania organizzato da Gino Palumbo, all’epoca capo dello sport del quotidiano il Mattino prima di trasferirsi a Milano per dirigere la Gazzetta dello Sport.

Tra Fausto Coppi e Gino Palumbo c’era un legame molto stretto. Fu proprio il giornalista a rimediare una biciclietta al campione, al ritorno dalla guerra in Africa, quando sbarcò a Napoli. Si incontrarono e Coppi, che aveva già vinto il suo primo giro nel 1940, gli chiese una mano. Palumbo lanciò un appello dalle colonne del giornale La Voce: «Date una bicicletta a Fausto Coppi». Ne arrivarono tre e Coppi scelse una Legnano da corsa. Era di un falegname di Somma Vesuviana, Angelo D’Avino, appassionato di ciclismo che fu felice di regalarglierla. Era la fine della guerra e una bicicletta all’epoca valeva eccome, come raccontò Vittorio De Sica in Ladri di biciclette.

D’Avino non ci pensò un attimo, non solo regalò la sua bicicletta a Coppi, ma lo ospitò per un po’.

In quel pomeriggio del ‘ 55 il belvedere di Bomerano era pieno di tifosi che guardavano la strada sottostante. I ciclisti apparivano e scomparivano nelle pieghe della montagna che precipita a picco verso il mare. Si avvicinarono e si iniziarono a distinguere le sagome e i colori. Dopo una curva apparve solitaria una maglia biancoceleste: “è isso, è isso’ ( è lui, è lui) gridava la folla. Coppi distaccò gli avversari e tra un pubblico che impazziva nel vederlo salire agile e sicuro, con la sua mitica pedalata leggera, imboccò il tunnel al culmine della salita con poco più di un minuto di vantaggio volando verso l’arrivo di Napoli, con quasi cinque minuti di vantaggio su Fiorenzo Magni. Ancora una volta la definizione che lo storico radiocronista Mario Ferretti aveva coniato per lui si ripeteva: “Un uomo solo è al comando della corsa, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”.

Come scrisse di lui Gianni Brera “sembra un’invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta. Coppi in azione non è più un uomo, del quale trascende sempre i limiti comuni. Coppi inarcato sul manubrio è un congegno superiore, una macchina di carne e ossa che stentiamo a riconoscerci simile. Allora persino i suoi capelli che il vento relativo scompiglia, paiono esservi per un fine preciso: indicare la folle incontenibile vibrazione del moto”. L’edizione 2017 del Giro d’Italia, la numero 100, ricorderà Coppi in modo speciale. La tredicesima tappa si concluderà a Tortona, città dove il Campionissimo è morto, mentre il giorno dopo la carovana rosa ripartirà, per la prima volta da Castellania, dove Coppi era nato nel 1919.

La sua passione per la bicicletta nasce, è proprio il caso di dirlo, per mestiere. Coppi, nato il 15 settembre 1919, infatti non proveniva certo da una famiglia agiata. I suoi genitori erano contadini che a ma- lapena riuscivano a mantenersi. Fausto, che di coltivare la terra non aveva assolutamente voglia, a 13 anni decise di andare a lavorare come garzone in una salumeria di Novi Ligure. È la svolta della sua vita, perché proprio grazie all’amore appena sbocciato per la bicicletta ( con la quale consegnava la merce) viene segnalato a Biagio Cavanna, gestore di una scuola di ciclismo e massaggiatore di campioni come Guerra e Girardengo, che gli insegna tutto ciò che sa di questo sport. Cavanna era cieco, ma sente subito che sotto le sue mani c’è il fisico di un campione. Il resto, il talento, la ‘ fame’, la passione, lo mette Coppi. Che in pochi anni diventa un asso del ciclismo non solo italiano, ma mondiale.

Nel 1940 debutta al Giro d’Italia e dimostra a tutti il suo valore, vincendolo a sorpresa. Partito come gregario di Gino Bartali, dopo una caduta del capitano si ritrova in maglia rosa e ci arriva a Milano. Due anni dopo stabilisce il nuovo record dell’ora. Finita la Guerra, un’Italia sempre più appassionata alle due ruote segue con grande attenzione le sue gesta. Nel 1946 domina la Milano- Sanremo, al Giro d’Italia, nonostante una lesione a una costola, arriva secondo dietro a Gino Bartali. Passato alla Bianchi, nel 1947 vince il suo secondo Giro, dominando nelle tappe alpine, che sarà soltanto un trampolino di lancio verso le fasi più intense della sua carriera ciclistica. La sfida tra Coppi e Bartali infiamma i tifosi che si dividono tra coppiani e bartaliani e si esaltano per i due campioni che si danno battaglia a ogni gara.

Coppi diventa uno degli sportivi più pagati del momento. Del resto è un perfezionista che non lascia nulla al caso, la sua preparazione fisica è impeccabile. È un corridore completo, instancabile passista ma anche eccezionale scalatore, grazie al suo fisico, magari ad occhio poco atletico, ma praticamente perfetto ( meno di 40 pulsazioni al minuto e una capacità polmonare di 7 litri, contro i quattro normali). Aveva solo una fragilità ossea che gli procurò ben 11 fratture durante la sua carriera.

Non è sorprendente dunque il fatto che il suo palmarés continui a riempirsi di successi: nel 1949 si aggiudica la Milano- Sanremo, vince il Giro d’Italia e nella Cuneo- Pinerolo realizza quella che è stata definita la più grande impresa ciclistica di tutti i tempi. Dopo una fuga di 192 chilometri e dopo aver scalato cinque colli alpini si presenta al traguardo con dodici minuti di vantaggio sul secondo: il rivale di sempre Gino Bartali. Quell’anno riesce a firmare un’impresa fino ad allora mai riuscita a un ciclista: aggiudicarsi nello stesso anno sia il Giro d’Italia che il Tour de France ( dopo di lui solo Merckx, Hinault, Anquetil, Indurain, Roche e Pantani). Prima sui Pirenei e poi sulle Alpi, Coppi recupera ben 19 minuti di svantaggio dal primo. Bartali è maglia gialla, ma nella tappa che arriva ad Aosta cade e a quel punto l’Airone, che era in fuga con lui, vola verso la vittoria e agli Champs- Élysées è primo lasciando al rivale di sempre il secondo gradino del podio. Diventa così il nuovo idolo dei francesi.

I due anni successivi sono sfortunati per il campionissimo. Cade ed è costretto a ritirarsi dal giro. Ritorna in sella e accanto a Fausto c’è il fratello minore Serse, suo fedele gregario fino a quel tragico 1951 che lo vede morire dopo una caduta al termine del giro del Piemonte in vista del traguardo. Per Fausto è un momento durissimo: pensa di abbandonare il ciclismo, ma l’amore per la bicicletta vince sul dolore.

Nel 1952 bissa l’impresa al Giro e al Tour. È l’anno che vede Coppi e Bartali siglare il famoso “patto di Chiavari”. I due con la maglia della nazionale e sotto la guida di Alfredo Binda collaborano, si aspettano e si incoraggiano a vicenda, vincendo tappe su tappe. Quel Tour ci riporta alla mente la sua istantanea più famosa, lo scatto che ritrae il passaggio di borraccia dalle sue mani a quelle del suo antagonista. Ma chi l’ha passata a chi? L’anno successivo conquista il suo quinto Giro d’Italia, battendo il nuovo rivale Hugo Koblet, e diventa campione del mondo su strada, l’unica corsa su strada che non era ancora riuscito a vincere.

La vita privata di Coppi ha un’impennata nel 1953. Si innamora di Giulia Occhini, incontrata nel 1948 quando vinse le Tre Valli Varesine e lei, si avvicina al campione per un autografo, per conto del marito suo grande tifoso. Tra Coppi e la Occhini inizia un rapporto epistolare che durerà per anni. Nel 1953 inizia la loro relazione. I due sono sposati, ma il loro amore rompe tutti gli argini e la relazione diventa pubblica l’anno successivo, quando vanno a vivere insieme a Novi Ligure. Nell’Italia dell’epoca la cosa fa scandalo e l’appellativo di ‘ dama bianca’ per Giulia Occhini, coniato dal giornalista Pierre Chany per via del colore del montgomery indossato dalla donna all’arrivo di Saint Moritz nel giro d’Italia del 1954, diventa sinonimo di fedifraga. Da semidio idolatrato dalle folle, Coppi conosce la contestazione dei suoi tifosi. E anche il Papa di allora, Pio XII, condanna la loro relazione. La Occhini viene denunciata dal marito per adulterio. Arrestata, viene poi spedita ad Ancona in attesa del processo. A Coppi viene ritirato il passaporto, un danno notevole per lui che era spesso all’estero per le gare. Il processo che si svolge nel marzo del 1955, si conclude con una condanna per entrambi. Al ciclista vengono inflitti due mesi di carcere per abbandono del tetto coniugale ( viveva con la moglie Bruna Ciampolini e la figlia Marina, nata nel 1947), la Occhini viene condannata a tre anni ma la pena in seguito verrà sospesa. La coppia decide così di trasferirsi all’estero. Si sposano in Messico, un matrimonio non riconosciuto in Italia, e nel maggio del 1955, a Buenos Aires nasce il figlio Angelo Fausto.

È un momento felice della vita di Fausto Coppi, ma anche l’inizio di un lento e progressivo declino, accompagnato dal rammarico di non aver potuto ottenere di più sia per la sospensione delle corse in occasione della Seconda Guerra Mondiale, ma anche per i tanti infortuni che lo hanno frenato. Aveva deciso di ritirarsi nel 1960, dopo aver accettato l’ultima sfida della sua carriera, correre per la San Pellegrino Sport, una formazione appena nata e diretta proprio dall’amico- rivale Bartali. Oggi forse sarebbe un grande progetto di marketing. A quel tempo, però, fu un progetto che non andò mai in porto.

Nel mese di dicembre del 1959 Coppi decide infatti di partecipare ad un Criterium in Africa, a Ouagadougou, città dell’attuale Burkina Faso. Quella stessa Africa nella quale era stato fatto prigioniero ai tempi dalla guerra, visto che nel ‘ 43 era stato catturato dagli inglesi a Capo Bon e rinchiuso vicino Algeri, a Megez El Bab.

Quella di Ouagadougou è la corsa che gli è costata la vita, perché è proprio lì che Coppi, dopo aver partecipato a delle battute di caccia ( era molto appassionato) contrae la malaria. Al campione tocca in sorte la forma più violenta della patologia, quella generata dal plasmodium falciparum rilevato nel suo sangue e in quello del francese Geminiani, anche lui colpito dalla malattia nella stessa occasione. Ma mentre il corridore transalpino riuscì a salvarsi grazie all’intervento tempestivo dei medici, per Coppi non ci fu niente da fare. Morì a soli quarant’anni il 2 gennaio del 1960. Ai suoi funerali, due giorni dopo, parteciparono a Castellania oltre cinquantamila persone. Giulia Occhini, dopo la morte di Fausto, proseguirà la sua vita lontana dai riflettori. Ma il destino ha scritto per lei un’altra tragica pagina: il 3 agosto del 1991, coinvolta in un incidente stradale proprio davanti a Villa Coppi, finisce in coma e ci rimane per quasi un anno e mezzo. Muore a 70 anni, il 6 gennaio 1993. Il suo cantore Orio Vergani scrisse: «L’Airone ha chiuso le ali».

Questo era Coppi, un angelo, un airone, un eroe omerico con gli dei protettori e nemici. Diventato immortale proprio per essere stato invincibile sui pedali, ma caduto spesso in disgrazia. La sua morte prematura lo ha consacrato per sempre come un mito.

 

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Il sogno di Vienna: a piedi sulle orme del Grand Tour di Goethe

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Il 28 agosto inizierà il Grand Tour di Vienna Cammarota. Alle 6 di lunedì partirà da Karlovy Vary, capoluogo della Repubblica Ceca, per fare a piedi, prima donna al mondo, a 67 anni, il viaggio che lo scrittore tedesco Johann Wolfgang von Goethe fece in calesse nel 1786, dando vita ad un Gran Tour che durò 2 anni, come avevano fatto altri giovani intellettuali dell’epoca. Saranno 2500 i chilometri percorsi, e la meta finale sarà Paestum, non lontano dal suo paese d’origine, Felitto. Attraverserà Monaco, Innsbruck, le Alpi bavaresi e quelle austriache – 23 i comuni in cui transiterà prima di giungere al confine italiano il 20 settembre. Poi inizierà la parte italiana dell’impresa, sino al sud del nostro Paese e porterà l’Europa nei luoghi dell’Italia centrale colpiti dal sisma.

Vienna Cammarota, salernitana, nata l’ 8 settembre del 1949, è una Guida ambientale escursionistica, coordinatrice delle Guide Aigae Campania. Vienna attraversò il Madagascar in kayak nel 2004, la Patagonia nel 2006, l’Amazzonia nel 2011, il Nepal e Tibet a piedi nel 2015, Israele e Palestina a piedi nel 2014 e ben 230 Km dal Cilento al Gargano in Italia nel 2016. Ecco dunque la nuova impresa con cui “sfiderà” 231 anni dopo lo scrittore e drammaturgo tedesco. Goethe attraversò, infatti, la Boemia, la Baviera, parte dell’Austria, arrivò a Trento, a Torbole sul Lago di Garda, poi Verona, Padova con la visita all’Orto Botanico, Vicenza dove vide le opere del Palladio e del Tiepolo, vide Venezia, Ferrara, Cento, Bologna con la Santa Cecilia di Raffaello e la visita alla Torre degli Asinelli ed ancora Firenze, Roma, dove soggiornò a lungo nella dimora di Via del Corso che oggi è sede del Museo, Napoli dove incontrò Gaetano Filangieri, Pompei, Torre Annunziata, Caserta, Portici, Ercolano, Sorrento, Paestum. Goethe concluse il viaggio in Sicilia ma ha raccontato anche l’Umbria e l’Abruzzo. In Abruzzo Vienna incontrerà le popolazioni del centro Italia colpite dal terremoto dell’anno scorso. A Civitella Alfedena arriveranno ben 4000 guide ambientali escursionistiche, da tutta Italia, per salutarla. Vienna poi proseguirà ancora il suo viaggio fino a Paestum.

«Sto studiando in tedesco il diario di Goethe – racconta al Dubbio Vienna Cammarota – e conducendo attività capillare di ricerca per vedere se quelle locande che ospitarono il grande scrittore e filosofo tedesco, durante il suo viaggio, esistono ancora. Le sto cercando». Non sarà un viaggio facile comunque: Vienna Cammarota dovrà affrontare la montagna in alta quota, boschi, foreste, strade veloci, pioggia, caldo e freddo: «Temo il Brennero. Una parte mi è sconosciuta e questo spaventa ma allo stesso tempo affascina. C’è anche la possibilità che molti rifugi siano chiusi e non posso di certo andare in paese, prendere la chiave e tornare indietro. Sulla mia strada troverò sicuramente anche pioggia e grandine, comunque il ritmo sarà di circa 25 – 30 km al giorno, a piedi. Saranno 23 le città che attraverserò al di fuori dei confini italiani, 50 i giorni di cammino, di cui 21 all’estero, con una media di 8 ore al giorno». Camminerà per tre mesi circa, con in spalla uno zaino di 10 chili, nessun gps a indicarle la strada, ma solo la memoria delle mappe, senso dell’orientamento e una bussola. Non avrà una tenda da campeggio ma spera che la gente la accolga in casa per darle un tetto sotto il quale dormire. Seguirà anche una particolare alimentazione: «Eliminerò i latticini mantenendo il parmigiano di cui mi nutrirò. Mangerò frutta secca, berrò molta acqua introducendo un poco di sale quando il fisico sarà particolarmente stanco».

Ma i pericoli non sono solo quelli della natura: «Sono spaventata dall’indifferenza delle persone nei territori che attraverserò. Facendo sopralluoghi in Repubblica Ceca ho riscontrato molta indifferenza al dialogo. Voglio semplicemente conoscere le tradizioni delle città e parlarne».

Durante il tour, Vienna, infatti, terrà un suo diario, intervistando in inglese, tedesco e italiano le persone che incontrerà sul suo cammino. Proprio in un momento storico in cui è facile chiudersi e arroccarsi alle proprie tradizioni, diffidando degli altri, Vienna Cammarota lancia un messaggio di comunanza, che testimonierà mettendo sul suo zaino le bandiere di tutte le Nazioni che attraverserà: «Il viaggio non è spostarsi ma camminare, conoscere, dialogare, incontrare. Il mio sarà un messaggio all’Europa ed alle donne, alle quali voglio far capire che noi possiamo. Non abbiamo età e non dobbiamo chiuderci nella nostra età. Ultimamente l’Europa è senza valori sociali ed invece io amo i valori sociali e non ci sono differenze. Se ognuno rispetta le proprie tradizioni possiamo benissimo convivere. Vorrei ricordare Giuseppina Pasqualino, la 33enne artista milanese che nel 2008 partì da Milano per raggiungere la Turchia indossando il vestito bianco da sposa per tutto il tragitto e purtroppo fu trovata poi morta. Lei ha voluto sicuramente difendere determinati valori andando oltre i confini delle Nazioni e le culture. Credo che Goethe abbia voluto dimostrarci anche questo partendo nel 1786 e dando vita ad un mondo nuovo, ad un’epoca innovativa. Temo che la gente non capirà il senso del mio viaggio. Ed il senso del mio viaggio sarà la fratellanza». E allora in bocca al lupo, Vienna Cammarota.

 

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Felice Gimondi: «Una bottiglietta di Perrier mi ha sbattuto fuori dalla leggenda»

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Cento e più chilometri alle spalle e cento da fare / Di sicuro non ci sarà più qualcuno con noi / Devi dare tutto prima che ti faccia passare / Io non mi lascio andare / Non ci pensare / Non mi staccherò. Quando la strada sale / Non ti voltare / Sai che ci sarò. Nel 2000 Enrico Ruggeri in “Gimondi e il Cannibale” cantava così la sfida infinita tra Felice Gimondi ed Eddy Merckx. Una sfida che ha appassionato tantissimi sportivi sicuri che Gimondi non si staccasse dal Cannibale e riuscisse a vincere. Nei 14 anni della carriera il campione bergamasco ha tagliato per primo 81 volte il traguardo su strada e 59 in circuito. Ha indossato per 24 giorni la maglia rosa e per 19 quella gialla. Ha vinto un Tour ( 1965), tre Giri d’Italia (’ 67, ’ 69 ’ 76), una Vuelta (’ 68), un campionato del mondo (’ 73), due campionati italiani (’ 68 e ’ 72), due Giri di Lombardia (’ 66 e ’ 73), una Milano- Sanremo (’ 74), una Parigi-Roubaix (’ 66), due Parigi- Bruxelles (’ 66 e ‘ 76), due Gran Premi delle Nazioni a cronometro (’ 67 e ’ 68), due Trofeo Baracchi (’ 68 con Anquetil e ’ 73 con Rodriguez), sette tappe al Giro d’Italia e sette al Tour.

Lo raggiungiamo telefonicamente alla vigilia della tappa del Giro che è arrivata a casa sua, a Bergamo. «Quest’anno, tranne ovviamente l’arrivo a Bergamo, vado solo su a Pinzolo, dove presi la maglia contro Anquetil, e Canazei. Il resto della corsa lo guardo in tv» dice.

Lei, il figlio della postina di Sedrina, è arrivato a essere Gimondi

La mia prima bici mi è stata regalata in prima elementare, quando sono stato promosso. Poi sono diventato vice postino, aiutavo mamma Angela a consegnare la posta. E lo facevo in bici naturalmente, soprattutto nelle frazioni. Il mio papà era un trasportatore, aveva tre camion, ma è stato un ciclista.

Non solo Enrico Ruggeri le ha dedicato una canzone, ma anche Elio e le Storie Tese. Come Bartali, Coppi, Girardengo, Pantani. Che effetto le fa?

Quella di Ruggeri mi piace moltissimo perché è riuscito a rendere molto bene la fatica, dal testo si capisce che era un mio tifoso e un grosso appassionato di ciclismo. Lo “stomaco dentro al giornale” lo mettevamo davvero per proteggerci prima di affrontare una discesa. Mi fa molto piacere che le mie imprese, così come quelle di altri grandi del ciclismo vengano ricordate non solo dagli addetti ai lavori. Così veniamo ricordati da tutti.

Ma torniamo al Cannibale Merckx. Se non ci fosse stato lui come sarebbe stata la carriera di Felice Gimondi?

Era un cagnaccio che non mollava mai. Ma mi ha dato degli stimoli incredibili. Quando devi fronteggiare un avversario simile cerchi sempre di migliorare. Però, senza di lui, ho la presunzione di dire che cinque Giri e due Tour avrei potuti vincerli anche io.

Il ciclismo ha sempre vissuto di dualismi: Binda e Guerra, Coppi e Bartali, Moser e Saronni, Pantani e Armstrong e oggi Nibali e Aru, e così via. A lei è toccato Eddy Merckx: il più difficile.

Se lo dico io è facile, sicuramente è stato un uomo di una determinazione paurosa. Eddy aveva carattere, grinta, voglia di trionfare, tutto quello che serve per correre in bici e vincere.

Anche lei.

Anche io, ma lui era più forte…

Nel ’ 67 lei stava per riuscire nell’accoppiata Giro- Tour riuscita a pochi, ma andò male.

È il mio grosso rimpianto. Avevo cominciato il Giro con grossi problemi fisici. Pensi che ero tornato dal Belgio con una bronchite e un cardiologo mi consigliò di fermarmi per cinque o sei mesi. Ad- dirittura era a rischio la mia carriera, avevo il cuore troppo grosso. Per fortuna il medico sportivo dell’Inter mi tranquillizzò e mi disse che dovevamo solo curare la bronchite. Era martedì e il Giro sarebbe partito domenica. Il giovedì feci con Giancarlo Ferretti, che è sempre stato mio compagno di squadra, un test importante da Imola a Firenze e ritorno, scavalcando due volte gli Appennini. Al ritorno dissi a Luciano Pezzi, il direttore della Salvarani, che ero pronto per partire. Fu un giro durissimo per me. Sul Blockhaus vinse Merckx, che allora era al suo primo Giro, e io non ero tra i primi. Ho fatto di tutto per controllare la corsa, poi nel finale della competizione ho trovato la condizione: ho staccato Jacques ( Anquetil ndr.) sull’Aprica e sono arrivato al traguardo con oltre tre minuti di vantaggio. E ho vinto il Giro.

E poi il Tour…

Quando sono arrivato in Francia volavo, ma ho perso per una dissenteria. Tutta colpa di una bottiglietta d’acqua fredda. Allora non c’erano i rifornimenti, le tappe erano molto lunghe ed eravamo sui Pirenei. Me lo ricordo bene, ero senza acqua da trenta chilometri. Mentre correvo su una pista in terra battuta, mi sono avvicinato al camioncino della Perrier che seguiva il Tour, ho bevuto tutto d’un fiato e mi ha fregato. Ho perso il Tour ( vinto da Roger Pingeon, secondo Julio Jiménez e terzo Franco Balmamion ndr.), e non ho fatto la doppietta con il Giro. Un vero peccato.

In quel periodo c’erano tanti bravi ciclisti oltre al Cannibale: Anquetil, Jimenez, Zilioli, Dancelli, Bitossi, Motta, Adorni, Balmamion. Insomma, una bella lotta.

Erano tanti che in corsa menavano. Oltre a quelli che ha ricordato c’erano anche Jan Jansen e Raimond Poulidor. Tutti atleti di un certo spessore con i quali si battagliava ogni volta.

Chi è più vicino al ciclista Felice Gimondi: Nibali o Aru?

Vincenzo Nibali. Si difende su tutti i terreni è forte nelle corse a tappe e anche in quelle in linea. È determinato come lo ero io.

Un altro personaggio che è rimasto nel cuore di tutti gli sportivi è Marco Pantani. Lei che è stato suo direttore sportivo, come lo ricorda?

Fui chiamato alla Mercatone Uno per gestire Pantani. A chi mi chiede di Marco io rispondo che mi fa piacere ricordarlo nella tappa del Blockhaus, da dove è passato il giro in questi giorni. Aveva un problema al rocchetto e si attardò, i compagni lo aiutarono a rientrare prima della salita. Sembrava in difficoltà ma cominciò a recuperare posizioni su posizioni, rimontò Savoldelli, Gotti e per ultimo Jalabert. Arrivò al traguardo senza alzare le mani, non era sicuro di aver vinto. In quella salita fece una cosa eccezionale, rimontando ottanta corridori.

Un’altra brutta pagina per il ciclismo è quella del doping. Quando correva dovette subire anche lei quest’accusa. Tutti ricordano Eddy in lacrime.

Nei primi due anni della mia carriera non c’erano neanche i controlli antidoping. Nel 1967 vinsi una tappa al Tour e fui sottoposto al mio primo controllo. Purtroppo è una piaga che difficilmente sarà debellata. In un Giro arrivai terzo, non potevo fare nulla per vincere, ero andato male sulle Tre Cime ma fui trovato positivo per un prodotto che non era compreso nella lista. Facemmo le controanalisi al laboratorio delle ricerche antidoping, dopo aver preso gli stessi prodotti e aver corso per 120 chilometri. Il controllo diede lo stesso esito: c’erano picchi di anfetamina, ma non era vietato. Spero che gli atleti prima o poi capiscano che il doping va bandito, non solo dal ciclismo, ma da tutti gli sport. Pensi che ormai risultano positivi ai controlli antidoping anche i cicloamatori. Una cosa assurda che un geometra o impiegato assuma prodotti per vincere una gara amatoriale.

Da venti anni in sella alla sua Bianchi dà il via alla Gran Fondo Internazionale che porta il suo nome. Quest’anno si è corsa il 7 maggio la ventunesima edizione. Il tema scelto è stato “Tutto il rosa di Felice Gimondi”, dedicata al suo rapporto con il Giro d’Italia nell’anno della sua centesima edizione.

Mi fa molto piacere. È una bella manifestazione che ogni anno registra tantissimo entusiasmo e partecipanti.

Lei è considerato una figura importante del nostro sport, un esempio. Con Thoeni, Zoff, Facchetti, Mennea siete dei veri e propri monumenti.

Quasi tutti miei coetanei e miei simili. Soprattutto il mio amico Giacinto Facchetti, bergamasco anche lui, ma anche Zoff. Pur facendo sport diversi avevamo lo stesso approccio all’attività agonistica: persone di temperamento, abituate a lavorare e soffrire, a stare lontani dalle polemiche e a pensare solo a fare risultati.

E oggi qual è l’approccio allo sport?

I primi soldi che ho guadagnato li ho investiti nella casa per la mia famiglia. Prima della partenza di una tappa impegnativa dovevo essere concentrato, non potevo permettermi di avere preoccupazioni legate agli andamenti di titoli e azioni. La mia azienda erano le mie gambe, dovevo pedalare e provare a vincere.

Lei ha corso ed è stato protagonista in un periodo prima di grande entusiasmo e poi difficile come quello degli anni di piombo. Come ha vissuto quel pezzo di storia italiana dal sellino della sua bicicletta?

Mi ricordo che alla partenza del Giro d’Italia da Genova nel 1978 arrivò la notizia del ritrovamento del corpo di Aldo Moro. Partimmo, ma lo spirito era diverso. Ho vissuto quegli anni con preoccupazione. Nel 1976 vinsi il Giro, si festeggiava in piazza Duomo, ma non vedevo mia moglie Tiziana. Tornai in hotel e lì mi dissero che per ragioni di sicurezza i carabinieri l’avevano portata in un posto più sicuro. Si trattava di una misura di protezione presa perché nei giorni precedenti aveva ricevuto minacce telefoniche per lei e le mie due figlie. Aveva avvertito i carabinieri ma non mi aveva raccontato nulla. Io stavo lottando per vincere il mio terzo Giro e lei aveva fatto di tutto per proteggermi, per non turbare la mia serenità. Per fortuna la cosa finì lì.

Nella sua vita oltre lo sport la famiglia ha sempre rappresentato un riferimento molto forte. Le fa piacere che una delle sue due figlie, Norma, abbia questa passione per il ciclismo?

Sicuramente. Devo dire che su tutto c’è mia moglie. Lo dico sempre: il merito per le mie vittorie lo devo dividere con lei. Mi ha fatto sempre correre tranquillo badando alle figlie e a tutte il resto. Mia figlia Norma, che fa l’avvocato, è diventata una maniaca. Pensi che io ho una bici da corsa e una mountain bike, mentre lei ne ha quindici. Ora sta raccogliendo le maglie delle mie vittorie e le sta conservando. Si era anche candidata alla guida della Federazione ciclistica.

È arrivata seconda: la maledizione dei Gimondi?

No. Questa è stata una benedizione.

 

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L’addio all’atletica di Bolt. Così superman è diventato uomo…

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La carriera del più grande velocista del mondo finisce con un urlo di dolore, il volto coperto dalle mani e il corpo disteso lungo la pista di atletica. Il superman, dunque, è ridiventato uomo. Per sempre.

Impegnato nella staffetta 4×100 dei mondiali di Londra, Usain Bolt è caduto a terra dopo pochissime falcate. I suoi compagni lo hanno sorretto, consolato, rassicurato. Ma  l’addio dell’atleta degli 8 ori olimpici, degli 11 mondiali e dei record del mondo sbriciolati uno dopo l’altro, non poteva essere più malinconico. Bolt  sognava l’ultimo oro, l’ultimo giro di pista, l’ultimo saluto ai tifosi. E invece ha passato la notte in infermeria a cercare di farsi curare i muscoli che lo hanno tradito. Insomma, la storia del campione giamaicano che ha cambiato i connotati della velocità a suon di record del mondo è finita sabato sera.

Ma negli annali sportivi le sue imprese sono già leggenda. A cominciare da quelle delle olimpiadi di Pechino. Fu lì, a Pechino, che Bolt, guascone fenomenale, si mostrò al mondo. Prima vincendo i 100 metri e stabilendo il nuovo record del mondo: un 9″69 arrotondato per eccesso e dopo aver corso metà gara con un scarpa slacciata; poi dominando i 200 metri con un impensabile 19″30, corso con vento contrario di quasi un metro al secondo. Fu allora che Bolt divenne superman, registrando la massima velocità media con partenza da fermo mai raggiunta da un uomo (36,923 km/h, limite poi superato il 16 agosto 2009 nella finale dei 100 metri piani ai mondiali di Berlino con la media di 37,578 km/h). L’ultimo squillo di Pechino arrivò con la staffetta 4×100. La Giamaica guidata da Bolt, neanche a dirlo, vinse e stabilì il nuovo primato del mondo: 37″10.

Poi replicò i trionfi di Pechino alle olimpiadi di Londra e Rio. Ora saluta i tifosi e il tartan delle piste. Ma la storia dell’atletica è segnata. Per sempre.

davì

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Il Cio: i videogiochi sono uno sport. Presto alle olimpiadi

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I videogiochi sono uno sport, e forse presto sbarcheranno perfino alle Olimpiadi: sembrava una battuta, sta diventando realta, stando alla storica svolta del Cio. Il comitato olimpico internazionale per la prima volta ha dichiarato che i cosiddetti ESports sono vere e proprie discipline agonistiche, insomma sport veri e propri; e chissà quante mamme dovranno cominciare a rivedere le proprie abitudini, senza poter più dire ai propri figli che il tempo speso joystick in mano e troppo e troppo poco utile. “Ho squajato la playstation” fu la candida ammissione di Francesco Totti su come passasse il tempo libero nel ritiro azzurro: d’ora in poi non sarà più simbolo di passioni che dividono, ma la parola d’ordine di tanti aspiranti campioni. Quella del Cio è di fatto un’apertura storica verso un mondo che ha un fatturato che quest’anno supererà la barriera dei cento miliardi di dollari, cifra stratosferica alla quale il Comitato non può evidentemente rimanere indifferente.

I massimi dirigenti dello sport mondiale, dopo un summit a Losanna, hanno fatto capire che tale fenomeno non può più essere ignorato, nonostante il presidente Thomas Bach si fosse detto in passato contrario; per le Olimpiadi non è ancora arrivato il momento di imitare quanto avverrà ai Giochi Asiatici del prossimo anno in Indonesia, dove i videogiochi faranno parte a pieno titolo del programma, ma e questa la direzione verso cui si marcia. Del resto è il Cio stesso a scrivere in un comunicato che “gli-esports” sono in forte crescita, in particolare fra i giovani dei vari paesi, e anche di questo, per rendere sempre più attraenti le Olimpiadi agli occhi delle nuove generazioni, si deve tener conto. Non e un caso che a Tokyo 2020 ci saranno nuove discipline come surf, skateboard ed arrampicata, e il prossimo passo potrebbe essere proprio quello dei videogiochi.

Lo avevano ipotizzato, nei mesi scorsi, alcuni membri del comitato organizzatore locale di Parigi dei Giochi 2024 poi assegnati alla capitale francese. Adesso viene messo per iscritto, nella nota diffusa da Losanna, che “gli e-sports competitivi possono essere considerati un’attività sportiva, e i giocatori coinvolti si preparano e allenano con un’intensità che può essere paragonata a quelle degli atleti delle discipline tradizionali”.

Basterà, aggiunge il Cio, sottoscrivere la carta olimpica, dotarsi di strutture per combattere il doping, varare norme contro il rischio scommesse. Intanto, si avvieranno presto colloqui con l’industria” del settore. Lo sport virtuale appassiona molti campioni reali: chissà che Usain Bolt, che ama ‘Fifa 18’ e le precedenti edizioni del calcio virtuale, non possa esibirsi in un clamoroso ritorno ai Giochi, anche se non più in pista. Rafa Nadal potrebbe continuare a vincere set e game anche se elettronici, facendo del suo hobby una nuova professione. E che dire di Neymar, che oltre al “futebol” pratica da sempre gli “e-sports”? Nel frattempo uno degli uomini di punta dell’Italia Team targato Coni potrebbe diventare Alessandro Avallone, in arte Stermy, da oltre un decennio uno dei giocatori di videogame professionisti più forti e famosi a livello internazionale. Se i videogiochi sono sport, allora il futuro e questo.

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Norma Gimondi: «Questo cognome per me è come una medaglia»

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«Ne sarei orgoglioso. È stata questa la prima cosa che ha detto mio padre quando gli ho parlato dell’idea di candidarmi alla presidenza delle Federazione di ciclismo. Poi ha aggiunto che sarebbe stato per me un super lavoro. In quei mesi prima delle elezioni mi ha supportato e sopportato». Norma Gimondi, primogenita del campione bergamasco, è un’avvocata, fino a novembre scorso membro della Corte d’appello federale, è arbitro dell’Unione ciclistica internazionale. È stata procuratrice di alcuni ciclisti, e ha assistito molti atleti nei procedimenti disciplinari e legati al doping. Lunedì ha presentato con il collega Gianluca Santilli, senior partner di Ls Lexjus Sinacta, uno dei principali studi professionali italiani, con nove sedi in Italia, un progetto per creare un dipartimento di diritto e management dello sport.

In genere i figli non sono attratti dal lavoro dei genitori, invece lei il ciclismo ce l’ha nel sangue. Al punto da voler diventare il massimo dirigente della Federazione. Ci riproverà?

Penso di no, mancano tre anni e mezzo.

Il nostro ciclismo è in salute?

In questi ultimi mesi ho avuto modo di conoscere le realtà territoriali e rendermi conto della situazione difficile di alcune regioni. Tranne le isole felici di Lombardia, Veneto e Toscana in tre regioni non esistono i comitati.

I nostri due ciclisti di punta, però, Nibali e Aru, vengono dalla Sicilia e dalla Sardegna.

Sono nati in quelle regioni, ma ciclisticamente Nibali è cresciuto in Toscana e Aru a Bergamo.

Invece il ciclismo femminile come è messo?

Credo che sia il nostro fiore all’occhiello. In questi mesi ho cercato di far passare il messaggio che altre federazioni, come la scherma e la pallavolo, sono state in grado di trovare delle campionesse diventate testimonial dei loro sport. Penso alla Pellegrini, alla Vezzali, alla Kostner e così via. Non riusciamo a trovare una ragazza che possa diventare il simbolo per un movimento in espansione. Fino a trent’anni fa in Italia non esisteva nulla.

C’è anche un vero e proprio boom di quello amatoriale… Mi diverto tanto con i ritrovi vintage, faccio le Granfondo e vado in bici spesso. Devo dire che il turismo amatoriale è un fenomeno bellissimo. La Granfondo di Roma è una delle manifestazioni destinate ad avere sempre maggiori successi e a fare avvicinare tante persone al ciclismo.

Il suo rapporto con il ciclismo, ovviamente, è legato a sua padre. Qual è la prima immagine che le viene in mente?

In casa abbiamo sempre vissuto il classico rapporto tra padre e figli. Mentre gli altri si alzavano la mattina e uscivano con la tuta da metalmeccanico, o in giacca e cravatta, il mio papà era in calzoncini e andava ad allenarsi in bicicletta per quattro- cinque ore. In casa, però, era il classico papà. Quando lo raggiungevamo al Giro o al Tour avevamo la possibilità di incontrare tanti ciclisti. All’estero venivamo spesso ospitati dagli italiani emigrati. I compagni di squadra di papà, Santambrogio, Ferretti e altri, erano spesso a casa nostra per settimane. Merckx all’epoca era l’avversario ed era meglio non nominarlo, ma poi i rapporti sono diventati ottimi.

Dire “piacere, Gimondi” che cosa significa, anche nella sua professione?

Questo cognome è come una medaglia: ha due facce.

Quando incontro le persone e dico “piacere, Gimondi” noto una iniziale apertura, ma subito dopo scatta la diffidenza. A quel punto occorre un lavoro da parte mia per conquistare la fiducia degli interlocutori. Se non avessi questo cognome, forse, avrei dovuto lavorare meno. Sto molto attenta a svolgere la mia attività in modo serio e professionale, perché ho sempre pensato che un errore della figlia di Gimondi possa avere una risonanza molto più grande, rispetto a quello di un altro avvocato.

 

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Roger l’alieno

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Mai nessuno come lui, oltre il tempo e la storia Roger Federer conquista il suo ventesimo slam a quasi 37 anni. A fargli da spalla stavolta c’è il gigante croato Marin Cilic che lo impegna per tre ore e cinque set (6-2 6-7 (5) 6-3 3-6 6-1 ) prima di inchinarsi alla leggenda del tennis. Il campo centrale di Mebourne lo acclama come una divinità e lui, Roger, incredulo che si commuove come fosse il suo primo titolo.

“Questa è una favola che si realizza, se mi diverto ancora a giocare è grazie a chi mi segue e mi ama” ha detto lo svizzero prima di alzare al cielo il trofeo degli Australian Open. E di prepararsi ad affrontare un 2018 che potrebbe scrivere altri  luminosi capitoli della sua infinita saga tennistica. Da come sta giocando nell’ultimo anno (tre slam conquistati sugli ultimi cinque) nessun sogno sembra proibito. A cominciare dalla conquista della prima posizione mondiale (è a pochissimi punti dallo spagnolo Nadal)

Anche perché i suoi avversari sembrano smarriti, dai loro problemi ma anche dall’astro intramontabile di questo highlander dal sorriso gentile e capace di un tennis lunare, che ribalta le leggi della fisica, leggero come una farfalla e pungente come un’ape per citare un altro grande campione dello sport.

I tre alfieri del tennis muscolare moderno, Djokovich, Murray e Nadal sono afflitti dagli inevitabili problemi fisici e consumati dal loro approccio iper atletico che superata la trentina gli sta facendo pagare dazio; solamente Nadal, sembra trovare risorse mentali e fisiche per restare in cima in particolare sulla terra battuta, mentre tra i giovani c’è un preoccupante vuoto di talenti.

 

Intanto Roger l’alieno guarda l’orizzonte, si gode lo sguardo attonito di chi appena un anno fa lo dava per finito e si prepara a tagliare nuovi traguardi. Oltre il tempo e oltre la storia. Non solo quella del tennis.

 

 

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Pippo Tortu, il ragazzino brianzolo che ha battuto la leggenda Mennea…

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Sono bastati 9 secondi e 99 centesimi per entrare nella storia della velocità italiana. Ci ha pensato Filippo Tortu, un ragazzino brianzolo col sangue sardo, che dopo 39 anni ha cancellato il 10,01 di un certo Pietro Mennea. E’ successo venerdì notte sulla pista del Municipal Sports Center Moratalaz di Madrid.  Tortu sa benissimo cosa ha combinato: “Sognavo di battere il record di Mennea fin da bambini – ha raccontato – ma lui è la leggenda…”.

Tortu, dunque, ha migliorato di due centesimi il precedente limite che apparteneva da ben 14.171 giorni a Mennea. La “Freccia del Sud” corse in 10″01 il 4 settembre del 1979 allo stadio Azteca di Città del Messico in occasione delle Universiadi.

Filippo con 9″99 è il terzo bianco d’Europa di sempre ad essere sceso sotto i 10″. Prima di lui ci sono riusciti il francese Christophe Lemaitre che nel 2010 corse in 9″98 e l’azero naturalizzato turco Ramil Guliyev sceso a 9″97 nel 2017. Tortu proviene da una famiglia votata all’atletica.

Nonno Giacomo nel secondo dopoguerra era riuscito a correre i 100 metri in 10″9, papà Salvino – velocista sardo trapiantato in Lombardia e allenatore del figlio – è stato un buono atleta a livello giovanile per poi ritornare alle competizioni da master.

Il fratello maggiore Giacomo lo scorso anno fermò i crono su 10″73. La carriera di Filippo si è aperta nel 2014 ai trials per i Giochi olimpici giovanili dove, seppur salendo sul podio, mancò la qualificazione sui 100 metri centrata successivamente per la doppia distanza.

Infortunatosi ad entrambe le braccia all’arrivo dei 200 alle Olimpiadi under 18 in Cina, il giovane sprinter lombardo l’anno successivo realizzò il primato italiano allievi dei 100 con 10″33 (polverizzato il 10″49 di Giovanni Grazioli che resisteva dal 1976) e dei 200 in 20″92.

Tesserato per la Riccardi Milano, Pippo dalla Brianza nel 2016 ritocca di un centesimo un altro antico primato nazionale che resisteva dal 1982 (Pavoni), quello juniores dei 100 correndo due volte in 10″24 a Savona. Dopo l’argento ai Mondiali under 20 in Polonia, nel 2017 altri primati italiani juniores, sui 60 indoor (6″64) e sui 100 metri (10″15), e l’oro continentale juniores a Grosseto. Quest’anno su una pista amica come quella di Savona, il finanziere originario di Costa Lambro, frazione di Carate Brianza, ha fermato i crono su 10″03 diventando il secondo sprinter più veloce di sempre in Italia. Fino al 9,99 di venerdì notte.

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Sono bastati 9 secondi e 99 centesimi per entrare nella storia della velocità italiana. Ci ha pensato Filippo Tortu, un ragazzino brianzolo col sangue sardo, che dopo 39 anni ha cancellato il 10,01 di un certo Pietro Mennea. E’ successo venerdì notte sulla pista del Municipal Sports Center Moratalaz di Madrid.  Tortu sa benissimo cosa ha combinato: “Sognavo di battere il record di Mennea fin da bambini – ha raccontato – ma lui è la leggenda…”.

Tortu, dunque, ha migliorato di due centesimi il precedente limite che apparteneva da ben 14.171 giorni a Mennea. La “Freccia del Sud” corse in 10″01 il 4 settembre del 1979 allo stadio Azteca di Città del Messico in occasione delle Universiadi.

Filippo con 9″99 è il terzo bianco d’Europa di sempre ad essere sceso sotto i 10″. Prima di lui ci sono riusciti il francese Christophe Lemaitre che nel 2010 corse in 9″98 e l’azero naturalizzato turco Ramil Guliyev sceso a 9″97 nel 2017. Tortu proviene da una famiglia votata all’atletica.

Nonno Giacomo nel secondo dopoguerra era riuscito a correre i 100 metri in 10″9, papà Salvino – velocista sardo trapiantato in Lombardia e allenatore del figlio – è stato un buono atleta a livello giovanile per poi ritornare alle competizioni da master.

Il fratello maggiore Giacomo lo scorso anno fermò i crono su 10″73. La carriera di Filippo si è aperta nel 2014 ai trials per i Giochi olimpici giovanili dove, seppur salendo sul podio, mancò la qualificazione sui 100 metri centrata successivamente per la doppia distanza.

Infortunatosi ad entrambe le braccia all’arrivo dei 200 alle Olimpiadi under 18 in Cina, il giovane sprinter lombardo l’anno successivo realizzò il primato italiano allievi dei 100 con 10″33 (polverizzato il 10″49 di Giovanni Grazioli che resisteva dal 1976) e dei 200 in 20″92.

Tesserato per la Riccardi Milano, Pippo dalla Brianza nel 2016 ritocca di un centesimo un altro antico primato nazionale che resisteva dal 1982 (Pavoni), quello juniores dei 100 correndo due volte in 10″24 a Savona. Dopo l’argento ai Mondiali under 20 in Polonia, nel 2017 altri primati italiani juniores, sui 60 indoor (6″64) e sui 100 metri (10″15), e l’oro continentale juniores a Grosseto. Quest’anno su una pista amica come quella di Savona, il finanziere originario di Costa Lambro, frazione di Carate Brianza, ha fermato i crono su 10″03 diventando il secondo sprinter più veloce di sempre in Italia. Fino al 9,99 di venerdì notte.

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Sono bastati 9 secondi e 99 centesimi per entrare nella storia della velocità italiana. Ci ha pensato Filippo Tortu, un ragazzino brianzolo col sangue sardo, che dopo 39 anni ha cancellato il 10,01 di un certo Pietro Mennea. E’ successo venerdì notte sulla pista del Municipal Sports Center Moratalaz di Madrid.  Tortu sa benissimo cosa ha combinato: “Sognavo di battere il record di Mennea fin da bambini – ha raccontato – ma lui è la leggenda…”.

Tortu, dunque, ha migliorato di due centesimi il precedente limite che apparteneva da ben 14.171 giorni a Mennea. La “Freccia del Sud” corse in 10″01 il 4 settembre del 1979 allo stadio Azteca di Città del Messico in occasione delle Universiadi.

Filippo con 9″99 è il terzo bianco d’Europa di sempre ad essere sceso sotto i 10″. Prima di lui ci sono riusciti il francese Christophe Lemaitre che nel 2010 corse in 9″98 e l’azero naturalizzato turco Ramil Guliyev sceso a 9″97 nel 2017. Tortu proviene da una famiglia votata all’atletica.

Nonno Giacomo nel secondo dopoguerra era riuscito a correre i 100 metri in 10″9, papà Salvino – velocista sardo trapiantato in Lombardia e allenatore del figlio – è stato un buono atleta a livello giovanile per poi ritornare alle competizioni da master.

Il fratello maggiore Giacomo lo scorso anno fermò i crono su 10″73. La carriera di Filippo si è aperta nel 2014 ai trials per i Giochi olimpici giovanili dove, seppur salendo sul podio, mancò la qualificazione sui 100 metri centrata successivamente per la doppia distanza.

Infortunatosi ad entrambe le braccia all’arrivo dei 200 alle Olimpiadi under 18 in Cina, il giovane sprinter lombardo l’anno successivo realizzò il primato italiano allievi dei 100 con 10″33 (polverizzato il 10″49 di Giovanni Grazioli che resisteva dal 1976) e dei 200 in 20″92.

Tesserato per la Riccardi Milano, Pippo dalla Brianza nel 2016 ritocca di un centesimo un altro antico primato nazionale che resisteva dal 1982 (Pavoni), quello juniores dei 100 correndo due volte in 10″24 a Savona. Dopo l’argento ai Mondiali under 20 in Polonia, nel 2017 altri primati italiani juniores, sui 60 indoor (6″64) e sui 100 metri (10″15), e l’oro continentale juniores a Grosseto. Quest’anno su una pista amica come quella di Savona, il finanziere originario di Costa Lambro, frazione di Carate Brianza, ha fermato i crono su 10″03 diventando il secondo sprinter più veloce di sempre in Italia. Fino al 9,99 di venerdì notte.

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Tortu, dunque, ha migliorato di due centesimi il precedente limite che apparteneva da ben 14.171 giorni a Mennea. La “Freccia del Sud” corse in 10″01 il 4 settembre del 1979 allo stadio Azteca di Città del Messico in occasione delle Universiadi.

Filippo con 9″99 è il terzo bianco d’Europa di sempre ad essere sceso sotto i 10″. Prima di lui ci sono riusciti il francese Christophe Lemaitre che nel 2010 corse in 9″98 e l’azero naturalizzato turco Ramil Guliyev sceso a 9″97 nel 2017. Tortu proviene da una famiglia votata all’atletica.

Nonno Giacomo nel secondo dopoguerra era riuscito a correre i 100 metri in 10″9, papà Salvino – velocista sardo trapiantato in Lombardia e allenatore del figlio – è stato un buono atleta a livello giovanile per poi ritornare alle competizioni da master.

Il fratello maggiore Giacomo lo scorso anno fermò i crono su 10″73. La carriera di Filippo si è aperta nel 2014 ai trials per i Giochi olimpici giovanili dove, seppur salendo sul podio, mancò la qualificazione sui 100 metri centrata successivamente per la doppia distanza.

Infortunatosi ad entrambe le braccia all’arrivo dei 200 alle Olimpiadi under 18 in Cina, il giovane sprinter lombardo l’anno successivo realizzò il primato italiano allievi dei 100 con 10″33 (polverizzato il 10″49 di Giovanni Grazioli che resisteva dal 1976) e dei 200 in 20″92.

Tesserato per la Riccardi Milano, Pippo dalla Brianza nel 2016 ritocca di un centesimo un altro antico primato nazionale che resisteva dal 1982 (Pavoni), quello juniores dei 100 correndo due volte in 10″24 a Savona. Dopo l’argento ai Mondiali under 20 in Polonia, nel 2017 altri primati italiani juniores, sui 60 indoor (6″64) e sui 100 metri (10″15), e l’oro continentale juniores a Grosseto. Quest’anno su una pista amica come quella di Savona, il finanziere originario di Costa Lambro, frazione di Carate Brianza, ha fermato i crono su 10″03 diventando il secondo sprinter più veloce di sempre in Italia. Fino al 9,99 di venerdì notte.

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Tortu, dunque, ha migliorato di due centesimi il precedente limite che apparteneva da ben 14.171 giorni a Mennea. La “Freccia del Sud” corse in 10″01 il 4 settembre del 1979 allo stadio Azteca di Città del Messico in occasione delle Universiadi.

Filippo con 9″99 è il terzo bianco d’Europa di sempre ad essere sceso sotto i 10″. Prima di lui ci sono riusciti il francese Christophe Lemaitre che nel 2010 corse in 9″98 e l’azero naturalizzato turco Ramil Guliyev sceso a 9″97 nel 2017. Tortu proviene da una famiglia votata all’atletica.

Nonno Giacomo nel secondo dopoguerra era riuscito a correre i 100 metri in 10″9, papà Salvino – velocista sardo trapiantato in Lombardia e allenatore del figlio – è stato un buono atleta a livello giovanile per poi ritornare alle competizioni da master.

Il fratello maggiore Giacomo lo scorso anno fermò i crono su 10″73. La carriera di Filippo si è aperta nel 2014 ai trials per i Giochi olimpici giovanili dove, seppur salendo sul podio, mancò la qualificazione sui 100 metri centrata successivamente per la doppia distanza.

Infortunatosi ad entrambe le braccia all’arrivo dei 200 alle Olimpiadi under 18 in Cina, il giovane sprinter lombardo l’anno successivo realizzò il primato italiano allievi dei 100 con 10″33 (polverizzato il 10″49 di Giovanni Grazioli che resisteva dal 1976) e dei 200 in 20″92.

Tesserato per la Riccardi Milano, Pippo dalla Brianza nel 2016 ritocca di un centesimo un altro antico primato nazionale che resisteva dal 1982 (Pavoni), quello juniores dei 100 correndo due volte in 10″24 a Savona. Dopo l’argento ai Mondiali under 20 in Polonia, nel 2017 altri primati italiani juniores, sui 60 indoor (6″64) e sui 100 metri (10″15), e l’oro continentale juniores a Grosseto. Quest’anno su una pista amica come quella di Savona, il finanziere originario di Costa Lambro, frazione di Carate Brianza, ha fermato i crono su 10″03 diventando il secondo sprinter più veloce di sempre in Italia. Fino al 9,99 di venerdì notte.

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Tortu, dunque, ha migliorato di due centesimi il precedente limite che apparteneva da ben 14.171 giorni a Mennea. La “Freccia del Sud” corse in 10″01 il 4 settembre del 1979 allo stadio Azteca di Città del Messico in occasione delle Universiadi.

Filippo con 9″99 è il terzo bianco d’Europa di sempre ad essere sceso sotto i 10″. Prima di lui ci sono riusciti il francese Christophe Lemaitre che nel 2010 corse in 9″98 e l’azero naturalizzato turco Ramil Guliyev sceso a 9″97 nel 2017. Tortu proviene da una famiglia votata all’atletica.

Nonno Giacomo nel secondo dopoguerra era riuscito a correre i 100 metri in 10″9, papà Salvino – velocista sardo trapiantato in Lombardia e allenatore del figlio – è stato un buono atleta a livello giovanile per poi ritornare alle competizioni da master.

Il fratello maggiore Giacomo lo scorso anno fermò i crono su 10″73. La carriera di Filippo si è aperta nel 2014 ai trials per i Giochi olimpici giovanili dove, seppur salendo sul podio, mancò la qualificazione sui 100 metri centrata successivamente per la doppia distanza.

Infortunatosi ad entrambe le braccia all’arrivo dei 200 alle Olimpiadi under 18 in Cina, il giovane sprinter lombardo l’anno successivo realizzò il primato italiano allievi dei 100 con 10″33 (polverizzato il 10″49 di Giovanni Grazioli che resisteva dal 1976) e dei 200 in 20″92.

Tesserato per la Riccardi Milano, Pippo dalla Brianza nel 2016 ritocca di un centesimo un altro antico primato nazionale che resisteva dal 1982 (Pavoni), quello juniores dei 100 correndo due volte in 10″24 a Savona. Dopo l’argento ai Mondiali under 20 in Polonia, nel 2017 altri primati italiani juniores, sui 60 indoor (6″64) e sui 100 metri (10″15), e l’oro continentale juniores a Grosseto. Quest’anno su una pista amica come quella di Savona, il finanziere originario di Costa Lambro, frazione di Carate Brianza, ha fermato i crono su 10″03 diventando il secondo sprinter più veloce di sempre in Italia. Fino al 9,99 di venerdì notte.

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Tortu, dunque, ha migliorato di due centesimi il precedente limite che apparteneva da ben 14.171 giorni a Mennea. La “Freccia del Sud” corse in 10″01 il 4 settembre del 1979 allo stadio Azteca di Città del Messico in occasione delle Universiadi.

Filippo con 9″99 è il terzo bianco d’Europa di sempre ad essere sceso sotto i 10″. Prima di lui ci sono riusciti il francese Christophe Lemaitre che nel 2010 corse in 9″98 e l’azero naturalizzato turco Ramil Guliyev sceso a 9″97 nel 2017. Tortu proviene da una famiglia votata all’atletica.

Nonno Giacomo nel secondo dopoguerra era riuscito a correre i 100 metri in 10″9, papà Salvino – velocista sardo trapiantato in Lombardia e allenatore del figlio – è stato un buono atleta a livello giovanile per poi ritornare alle competizioni da master.

Il fratello maggiore Giacomo lo scorso anno fermò i crono su 10″73. La carriera di Filippo si è aperta nel 2014 ai trials per i Giochi olimpici giovanili dove, seppur salendo sul podio, mancò la qualificazione sui 100 metri centrata successivamente per la doppia distanza.

Infortunatosi ad entrambe le braccia all’arrivo dei 200 alle Olimpiadi under 18 in Cina, il giovane sprinter lombardo l’anno successivo realizzò il primato italiano allievi dei 100 con 10″33 (polverizzato il 10″49 di Giovanni Grazioli che resisteva dal 1976) e dei 200 in 20″92.

Tesserato per la Riccardi Milano, Pippo dalla Brianza nel 2016 ritocca di un centesimo un altro antico primato nazionale che resisteva dal 1982 (Pavoni), quello juniores dei 100 correndo due volte in 10″24 a Savona. Dopo l’argento ai Mondiali under 20 in Polonia, nel 2017 altri primati italiani juniores, sui 60 indoor (6″64) e sui 100 metri (10″15), e l’oro continentale juniores a Grosseto. Quest’anno su una pista amica come quella di Savona, il finanziere originario di Costa Lambro, frazione di Carate Brianza, ha fermato i crono su 10″03 diventando il secondo sprinter più veloce di sempre in Italia. Fino al 9,99 di venerdì notte.

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Tortu, dunque, ha migliorato di due centesimi il precedente limite che apparteneva da ben 14.171 giorni a Mennea. La “Freccia del Sud” corse in 10″01 il 4 settembre del 1979 allo stadio Azteca di Città del Messico in occasione delle Universiadi.

Filippo con 9″99 è il terzo bianco d’Europa di sempre ad essere sceso sotto i 10″. Prima di lui ci sono riusciti il francese Christophe Lemaitre che nel 2010 corse in 9″98 e l’azero naturalizzato turco Ramil Guliyev sceso a 9″97 nel 2017. Tortu proviene da una famiglia votata all’atletica.

Nonno Giacomo nel secondo dopoguerra era riuscito a correre i 100 metri in 10″9, papà Salvino – velocista sardo trapiantato in Lombardia e allenatore del figlio – è stato un buono atleta a livello giovanile per poi ritornare alle competizioni da master.

Il fratello maggiore Giacomo lo scorso anno fermò i crono su 10″73. La carriera di Filippo si è aperta nel 2014 ai trials per i Giochi olimpici giovanili dove, seppur salendo sul podio, mancò la qualificazione sui 100 metri centrata successivamente per la doppia distanza.

Infortunatosi ad entrambe le braccia all’arrivo dei 200 alle Olimpiadi under 18 in Cina, il giovane sprinter lombardo l’anno successivo realizzò il primato italiano allievi dei 100 con 10″33 (polverizzato il 10″49 di Giovanni Grazioli che resisteva dal 1976) e dei 200 in 20″92.

Tesserato per la Riccardi Milano, Pippo dalla Brianza nel 2016 ritocca di un centesimo un altro antico primato nazionale che resisteva dal 1982 (Pavoni), quello juniores dei 100 correndo due volte in 10″24 a Savona. Dopo l’argento ai Mondiali under 20 in Polonia, nel 2017 altri primati italiani juniores, sui 60 indoor (6″64) e sui 100 metri (10″15), e l’oro continentale juniores a Grosseto. Quest’anno su una pista amica come quella di Savona, il finanziere originario di Costa Lambro, frazione di Carate Brianza, ha fermato i crono su 10″03 diventando il secondo sprinter più veloce di sempre in Italia. Fino al 9,99 di venerdì notte.

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