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Channel: Sport – Il Dubbio

Felice Gimondi: «Una bottiglietta di Perrier mi ha sbattuto fuori dalla leggenda»

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Cento e più chilometri alle spalle e cento da fare / Di sicuro non ci sarà più qualcuno con noi / Devi dare tutto prima che ti faccia passare / Io non mi lascio andare / Non ci pensare / Non mi staccherò. Quando la strada sale / Non ti voltare / Sai che ci sarò. Nel 2000 Enrico Ruggeri in “Gimondi e il Cannibale” cantava così la sfida infinita tra Felice Gimondi ed Eddy Merckx. Una sfida che ha appassionato tantissimi sportivi sicuri che Gimondi non si staccasse dal Cannibale e riuscisse a vincere. Nei 14 anni della carriera il campione bergamasco ha tagliato per primo 81 volte il traguardo su strada e 59 in circuito. Ha indossato per 24 giorni la maglia rosa e per 19 quella gialla. Ha vinto un Tour ( 1965), tre Giri d’Italia (’ 67, ’ 69 ’ 76), una Vuelta (’ 68), un campionato del mondo (’ 73), due campionati italiani (’ 68 e ’ 72), due Giri di Lombardia (’ 66 e ’ 73), una Milano- Sanremo (’ 74), una Parigi-Roubaix (’ 66), due Parigi- Bruxelles (’ 66 e ‘ 76), due Gran Premi delle Nazioni a cronometro (’ 67 e ’ 68), due Trofeo Baracchi (’ 68 con Anquetil e ’ 73 con Rodriguez), sette tappe al Giro d’Italia e sette al Tour.

Lo raggiungiamo telefonicamente alla vigilia della tappa del Giro che è arrivata a casa sua, a Bergamo. «Quest’anno, tranne ovviamente l’arrivo a Bergamo, vado solo su a Pinzolo, dove presi la maglia contro Anquetil, e Canazei. Il resto della corsa lo guardo in tv» dice.

Lei, il figlio della postina di Sedrina, è arrivato a essere Gimondi

La mia prima bici mi è stata regalata in prima elementare, quando sono stato promosso. Poi sono diventato vice postino, aiutavo mamma Angela a consegnare la posta. E lo facevo in bici naturalmente, soprattutto nelle frazioni. Il mio papà era un trasportatore, aveva tre camion, ma è stato un ciclista.

Non solo Enrico Ruggeri le ha dedicato una canzone, ma anche Elio e le Storie Tese. Come Bartali, Coppi, Girardengo, Pantani. Che effetto le fa?

Quella di Ruggeri mi piace moltissimo perché è riuscito a rendere molto bene la fatica, dal testo si capisce che era un mio tifoso e un grosso appassionato di ciclismo. Lo “stomaco dentro al giornale” lo mettevamo davvero per proteggerci prima di affrontare una discesa. Mi fa molto piacere che le mie imprese, così come quelle di altri grandi del ciclismo vengano ricordate non solo dagli addetti ai lavori. Così veniamo ricordati da tutti.

Ma torniamo al Cannibale Merckx. Se non ci fosse stato lui come sarebbe stata la carriera di Felice Gimondi?

Era un cagnaccio che non mollava mai. Ma mi ha dato degli stimoli incredibili. Quando devi fronteggiare un avversario simile cerchi sempre di migliorare. Però, senza di lui, ho la presunzione di dire che cinque Giri e due Tour avrei potuti vincerli anche io.

Il ciclismo ha sempre vissuto di dualismi: Binda e Guerra, Coppi e Bartali, Moser e Saronni, Pantani e Armstrong e oggi Nibali e Aru, e così via. A lei è toccato Eddy Merckx: il più difficile.

Se lo dico io è facile, sicuramente è stato un uomo di una determinazione paurosa. Eddy aveva carattere, grinta, voglia di trionfare, tutto quello che serve per correre in bici e vincere.

Anche lei.

Anche io, ma lui era più forte…

Nel ’ 67 lei stava per riuscire nell’accoppiata Giro- Tour riuscita a pochi, ma andò male.

È il mio grosso rimpianto. Avevo cominciato il Giro con grossi problemi fisici. Pensi che ero tornato dal Belgio con una bronchite e un cardiologo mi consigliò di fermarmi per cinque o sei mesi. Ad- dirittura era a rischio la mia carriera, avevo il cuore troppo grosso. Per fortuna il medico sportivo dell’Inter mi tranquillizzò e mi disse che dovevamo solo curare la bronchite. Era martedì e il Giro sarebbe partito domenica. Il giovedì feci con Giancarlo Ferretti, che è sempre stato mio compagno di squadra, un test importante da Imola a Firenze e ritorno, scavalcando due volte gli Appennini. Al ritorno dissi a Luciano Pezzi, il direttore della Salvarani, che ero pronto per partire. Fu un giro durissimo per me. Sul Blockhaus vinse Merckx, che allora era al suo primo Giro, e io non ero tra i primi. Ho fatto di tutto per controllare la corsa, poi nel finale della competizione ho trovato la condizione: ho staccato Jacques ( Anquetil ndr.) sull’Aprica e sono arrivato al traguardo con oltre tre minuti di vantaggio. E ho vinto il Giro.

E poi il Tour…

Quando sono arrivato in Francia volavo, ma ho perso per una dissenteria. Tutta colpa di una bottiglietta d’acqua fredda. Allora non c’erano i rifornimenti, le tappe erano molto lunghe ed eravamo sui Pirenei. Me lo ricordo bene, ero senza acqua da trenta chilometri. Mentre correvo su una pista in terra battuta, mi sono avvicinato al camioncino della Perrier che seguiva il Tour, ho bevuto tutto d’un fiato e mi ha fregato. Ho perso il Tour ( vinto da Roger Pingeon, secondo Julio Jiménez e terzo Franco Balmamion ndr.), e non ho fatto la doppietta con il Giro. Un vero peccato.

In quel periodo c’erano tanti bravi ciclisti oltre al Cannibale: Anquetil, Jimenez, Zilioli, Dancelli, Bitossi, Motta, Adorni, Balmamion. Insomma, una bella lotta.

Erano tanti che in corsa menavano. Oltre a quelli che ha ricordato c’erano anche Jan Jansen e Raimond Poulidor. Tutti atleti di un certo spessore con i quali si battagliava ogni volta.

Chi è più vicino al ciclista Felice Gimondi: Nibali o Aru?

Vincenzo Nibali. Si difende su tutti i terreni è forte nelle corse a tappe e anche in quelle in linea. È determinato come lo ero io.

Un altro personaggio che è rimasto nel cuore di tutti gli sportivi è Marco Pantani. Lei che è stato suo direttore sportivo, come lo ricorda?

Fui chiamato alla Mercatone Uno per gestire Pantani. A chi mi chiede di Marco io rispondo che mi fa piacere ricordarlo nella tappa del Blockhaus, da dove è passato il giro in questi giorni. Aveva un problema al rocchetto e si attardò, i compagni lo aiutarono a rientrare prima della salita. Sembrava in difficoltà ma cominciò a recuperare posizioni su posizioni, rimontò Savoldelli, Gotti e per ultimo Jalabert. Arrivò al traguardo senza alzare le mani, non era sicuro di aver vinto. In quella salita fece una cosa eccezionale, rimontando ottanta corridori.

Un’altra brutta pagina per il ciclismo è quella del doping. Quando correva dovette subire anche lei quest’accusa. Tutti ricordano Eddy in lacrime.

Nei primi due anni della mia carriera non c’erano neanche i controlli antidoping. Nel 1967 vinsi una tappa al Tour e fui sottoposto al mio primo controllo. Purtroppo è una piaga che difficilmente sarà debellata. In un Giro arrivai terzo, non potevo fare nulla per vincere, ero andato male sulle Tre Cime ma fui trovato positivo per un prodotto che non era compreso nella lista. Facemmo le controanalisi al laboratorio delle ricerche antidoping, dopo aver preso gli stessi prodotti e aver corso per 120 chilometri. Il controllo diede lo stesso esito: c’erano picchi di anfetamina, ma non era vietato. Spero che gli atleti prima o poi capiscano che il doping va bandito, non solo dal ciclismo, ma da tutti gli sport. Pensi che ormai risultano positivi ai controlli antidoping anche i cicloamatori. Una cosa assurda che un geometra o impiegato assuma prodotti per vincere una gara amatoriale.

Da venti anni in sella alla sua Bianchi dà il via alla Gran Fondo Internazionale che porta il suo nome. Quest’anno si è corsa il 7 maggio la ventunesima edizione. Il tema scelto è stato “Tutto il rosa di Felice Gimondi”, dedicata al suo rapporto con il Giro d’Italia nell’anno della sua centesima edizione.

Mi fa molto piacere. È una bella manifestazione che ogni anno registra tantissimo entusiasmo e partecipanti.

Lei è considerato una figura importante del nostro sport, un esempio. Con Thoeni, Zoff, Facchetti, Mennea siete dei veri e propri monumenti.

Quasi tutti miei coetanei e miei simili. Soprattutto il mio amico Giacinto Facchetti, bergamasco anche lui, ma anche Zoff. Pur facendo sport diversi avevamo lo stesso approccio all’attività agonistica: persone di temperamento, abituate a lavorare e soffrire, a stare lontani dalle polemiche e a pensare solo a fare risultati.

E oggi qual è l’approccio allo sport?

I primi soldi che ho guadagnato li ho investiti nella casa per la mia famiglia. Prima della partenza di una tappa impegnativa dovevo essere concentrato, non potevo permettermi di avere preoccupazioni legate agli andamenti di titoli e azioni. La mia azienda erano le mie gambe, dovevo pedalare e provare a vincere.

Lei ha corso ed è stato protagonista in un periodo prima di grande entusiasmo e poi difficile come quello degli anni di piombo. Come ha vissuto quel pezzo di storia italiana dal sellino della sua bicicletta?

Mi ricordo che alla partenza del Giro d’Italia da Genova nel 1978 arrivò la notizia del ritrovamento del corpo di Aldo Moro. Partimmo, ma lo spirito era diverso. Ho vissuto quegli anni con preoccupazione. Nel 1976 vinsi il Giro, si festeggiava in piazza Duomo, ma non vedevo mia moglie Tiziana. Tornai in hotel e lì mi dissero che per ragioni di sicurezza i carabinieri l’avevano portata in un posto più sicuro. Si trattava di una misura di protezione presa perché nei giorni precedenti aveva ricevuto minacce telefoniche per lei e le mie due figlie. Aveva avvertito i carabinieri ma non mi aveva raccontato nulla. Io stavo lottando per vincere il mio terzo Giro e lei aveva fatto di tutto per proteggermi, per non turbare la mia serenità. Per fortuna la cosa finì lì.

Nella sua vita oltre lo sport la famiglia ha sempre rappresentato un riferimento molto forte. Le fa piacere che una delle sue due figlie, Norma, abbia questa passione per il ciclismo?

Sicuramente. Devo dire che su tutto c’è mia moglie. Lo dico sempre: il merito per le mie vittorie lo devo dividere con lei. Mi ha fatto sempre correre tranquillo badando alle figlie e a tutte il resto. Mia figlia Norma, che fa l’avvocato, è diventata una maniaca. Pensi che io ho una bici da corsa e una mountain bike, mentre lei ne ha quindici. Ora sta raccogliendo le maglie delle mie vittorie e le sta conservando. Si era anche candidata alla guida della Federazione ciclistica.

È arrivata seconda: la maledizione dei Gimondi?

No. Questa è stata una benedizione.

 


Norma Gimondi: «Questo cognome per me è come una medaglia»

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«Ne sarei orgoglioso. È stata questa la prima cosa che ha detto mio padre quando gli ho parlato dell’idea di candidarmi alla presidenza delle Federazione di ciclismo. Poi ha aggiunto che sarebbe stato per me un super lavoro. In quei mesi prima delle elezioni mi ha supportato e sopportato». Norma Gimondi, primogenita del campione bergamasco, è un’avvocata, fino a novembre scorso membro della Corte d’appello federale, è arbitro dell’Unione ciclistica internazionale. È stata procuratrice di alcuni ciclisti, e ha assistito molti atleti nei procedimenti disciplinari e legati al doping. Lunedì ha presentato con il collega Gianluca Santilli, senior partner di Ls Lexjus Sinacta, uno dei principali studi professionali italiani, con nove sedi in Italia, un progetto per creare un dipartimento di diritto e management dello sport.

In genere i figli non sono attratti dal lavoro dei genitori, invece lei il ciclismo ce l’ha nel sangue. Al punto da voler diventare il massimo dirigente della Federazione. Ci riproverà?

Penso di no, mancano tre anni e mezzo.

Il nostro ciclismo è in salute?

In questi ultimi mesi ho avuto modo di conoscere le realtà territoriali e rendermi conto della situazione difficile di alcune regioni. Tranne le isole felici di Lombardia, Veneto e Toscana in tre regioni non esistono i comitati.

I nostri due ciclisti di punta, però, Nibali e Aru, vengono dalla Sicilia e dalla Sardegna.

Sono nati in quelle regioni, ma ciclisticamente Nibali è cresciuto in Toscana e Aru a Bergamo.

Invece il ciclismo femminile come è messo?

Credo che sia il nostro fiore all’occhiello. In questi mesi ho cercato di far passare il messaggio che altre federazioni, come la scherma e la pallavolo, sono state in grado di trovare delle campionesse diventate testimonial dei loro sport. Penso alla Pellegrini, alla Vezzali, alla Kostner e così via. Non riusciamo a trovare una ragazza che possa diventare il simbolo per un movimento in espansione. Fino a trent’anni fa in Italia non esisteva nulla.

C’è anche un vero e proprio boom di quello amatoriale… Mi diverto tanto con i ritrovi vintage, faccio le Granfondo e vado in bici spesso. Devo dire che il turismo amatoriale è un fenomeno bellissimo. La Granfondo di Roma è una delle manifestazioni destinate ad avere sempre maggiori successi e a fare avvicinare tante persone al ciclismo.

Il suo rapporto con il ciclismo, ovviamente, è legato a sua padre. Qual è la prima immagine che le viene in mente?

In casa abbiamo sempre vissuto il classico rapporto tra padre e figli. Mentre gli altri si alzavano la mattina e uscivano con la tuta da metalmeccanico, o in giacca e cravatta, il mio papà era in calzoncini e andava ad allenarsi in bicicletta per quattro- cinque ore. In casa, però, era il classico papà. Quando lo raggiungevamo al Giro o al Tour avevamo la possibilità di incontrare tanti ciclisti. All’estero venivamo spesso ospitati dagli italiani emigrati. I compagni di squadra di papà, Santambrogio, Ferretti e altri, erano spesso a casa nostra per settimane. Merckx all’epoca era l’avversario ed era meglio non nominarlo, ma poi i rapporti sono diventati ottimi.

Dire “piacere, Gimondi” che cosa significa, anche nella sua professione?

Questo cognome è come una medaglia: ha due facce.

Quando incontro le persone e dico “piacere, Gimondi” noto una iniziale apertura, ma subito dopo scatta la diffidenza. A quel punto occorre un lavoro da parte mia per conquistare la fiducia degli interlocutori. Se non avessi questo cognome, forse, avrei dovuto lavorare meno. Sto molto attenta a svolgere la mia attività in modo serio e professionale, perché ho sempre pensato che un errore della figlia di Gimondi possa avere una risonanza molto più grande, rispetto a quello di un altro avvocato.

 

Uno juventino a Roma, cronaca di una fede solitaria

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Sono stato cattolico praticante fino ai quattordici anni, ateo fino ai trentasei e ad oggi pratico il buddismo da quasi dieci anni. Ho votato per così tanti partiti e simpatizzato per movimenti extra parlamentari che neanche riesco a ricordarli. Ho suonato in situazione che riproponevano i Clash, Mozart, gli Iron Maiden, Puccini, Count Basie, Chuck Berry, Jobim, Fred Buscaglione e via dicendo. Una cosa però ha fermamente contraddistinto la mia identità: sono sempre stato Juventino.
Lo ricordo come se fosse ieri: era estate, avevo cinque anni e stavo in bicicletta con mio fratello di nove e mio cugino di sei mesi più grande di lui. Mio fratello Luca disse: «Io sono della Roma» e mio cugino rispose: «Io della Juve». Non sapevo neanche cosa fossero la Juve e la Roma, ma sapevo che mio cugino era l’unico in grado di mettere in riga Luca quando, come spesso succede tra fratelli, mi riempiva di mazzate. Da ciò è facile evincere che non presi questa decisione perché la Juve vince sempre, ma per desiderio di autonomia da mio fratello.

E siccome, se si eccettua il caso di Emilio Fede, non è dato conoscere persona che abbia cambiato la squadra per la quale tifava, eccomi qui juventino, anzi peggio: Uno juventino romano. E come tale sono cresciuto.

Essere Juventino a Roma, come da anni racconta egregiamente Massimo Zampini, non è cosa facilissima. L’ anno dello scudetto di Falcao frequentavo la prima media. Il giorno dopo la finale persa con l’Amburgo, ad aspettare noi (tre) Juventini c’era tutta la scuola (e a quei tempi alle medie si bocciava e quindi c’era un nutrito manipolo di sedicenni che guidavano il motorino o anche il 125). Per entrare siamo passati tra due ali di folla che ci prendeva a mazzate urlandoci di tutto e di più.
Per contro altare, anche le vittorie più clamorose o inaspettate le ho passate da solo. Il 5 maggio per esempio stavo a casa di mia cognata a Ostia, la Juve a Udine andò subito sul 0-2, a quel punto mi misi a seguire Lazio-Inter. Il resto della famiglia uscì per andare al mare. Io mi ritrovai da solo a pensare: «Incredibile, abbiamo vinto uno scudetto. Vabbe’, ‘n artro».
E così negli anni ho maturato uno stile compassato, non gioisco, non esulto. Anche se vinciamo 3-0 col Barcellona non muovo un muscolo fino a che l’arbitro non fischia la fine.
Sarà difficile crederci per i tifosi di altre squadre, ma a me essere Juventino ha causato sicuramente più delusioni che gioie. Vuoi un po’ perché da che seguo il calcio la Juve ha vinto 16 scudetti, la mia ossessione, come per la maggioranza del popolo bianconero, è mettere le mani su quella dannata coppa. Quindi venirmi a dire che sono Juventino perché mi piace vincere facile è quanto meno fuori luogo.
Da che seguo il calcio ho perso cinque finali di Champions. Quando è nato mio figlio ho dovuto scegliere se motivarlo a tifare la mia squadra ed essere odiato dai miei\suoi concittadini («rubbate», «er sistema», «e Moggi!?») o garantirgli un futuro con molte meno vittorie, ma con la possibilità di condividerle con i suoi amici non ho avuto dubbi e l’ho orientato verso la Roma di cui ora è un gran tifoso. Quindi premesse tutte queste cose, potrò però essere contento se a un certo punto, una dirigenza accorta (e vi dico che il giorno che Agnelli annunciò l’ultima stagione di Del Piero non la presi molto bene, in fondo lui era la Juve. Che aveva fatto per noi Andrea Agnelli? Beh, ora “qualcosina” l’ha dimostrata) ha pazientemente ricostruito una squadra (ricordo il centro campo con Pirlo, Marchisio, Vidal e Pogba è costato meno di Destro e molto meno di Bacca), una mentalità.

Non era così scontato dopo i due settimi posti. Era una squadra inguardabile, i pezzi pregiati del mercato estivo (Diego e Felipe Melo) si erano rivelati del tutto inadeguati. Buffon era sull’orlo di una crisi di nervi, Bonucci non ne parliamo. Per tutt’e due le stagioni nel finale c’erano anche due o tre partite in cui non si riusciva a fare, non dico un goal, neanche un cross teso da fondo campo. Un po’ tipo l’odierna Inter.
In quegli anni non c’era nessuno che si lamentava degli arbitraggi pro Juve.
Ora immaginate se fosse arrivato qualcuno che vi avesse detto che quella squadra avrebbe vinto i prossimi sei campionati, tre coppe Italia e disputato due finali di Champions, gli avreste creduto?Vorrei vedere quanti tra i miei concittadini che mi rimproverano l’assenza di “amore territoriale” da parte degli Juventini siano in grado di sapere la peculiarità e dove si trova San Girolamo della carità, quanti abbiamo mai visitato il cimitero dei Cappuccini a Via Veneto e via via salendo quanti sappiano dire con certezza di chi è il campanile di S. Ivo alla Sapienza e quante volte abbiano visitato le stanze di Raffaello. Quanti di costoro sanno che Palestrina era il “principe della musica”? Quanti hanno mai sentito nominare gli oratori di Carissimi e conoscono l’avventurosa vita del suo collega Alessandro Stradella che grazie a una messa inscena a Roma ebbe di fatto la vita salva?
Perché per loro forse l’amore per il proprio territorio si base sull’identificazione in un club di uno sport (tanto è solo questione di tempo, in previsione di un campionato unico europeo prima o poi gli investitori sempre meno legati al tifo inizieranno a spostare le squadre in altre città sul modello del NFL americano), per me sull’empatia con gli abitanti (ho fatto de mi’ fijo ‘n romanista vero) e sulla conoscenza della storia e del territorio stesso.

Federer vince Wimbledon per l’ottava volta

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Roger Federer quando è sceso sul capo di Wimbledon aveva un solo pensiero: vincere ed entrare nella leggenda. E così è stato. È ritornato a vincere a 36 anni per l’ottava volta (2003, 2004, 2005, 2006, 2007, 2009, 2012, 2017) il torneo più prestigioso del circuito mondiale a distanza da cinque anni dall’ultima volta. Ha centrato il suo 19esimo titolo slam della sua carriera e il secondo di questa stagione indimenticabile dopo l’Australian Open. Purtroppo il suo avversario Marin Cilic non è mai stato in partita, complice anche un fastidiosissimo e dolorosissimo problema al piede. Federer così non ha avuto grossi problemi a chiudere il match (6-3, 6-1, 6-4) che lo ha consacrato per sempre nella leggenda del tennis mondiale di tutti i tempi.

Con questa vittoria Roger Federer diventa il quinto uomo a vincere senza mai perdere un set dopo Don Budge (1938), Tony Trabert  (1955), Chuck McKinley (1963) e Bjorn Borg (1976). Questa finale con Cilic è stata la sua partita numero 102 al Championship, eguagliando Jimmy Connors: di queste, lo svizzero ne ha già conquistate 91. Federer diventa a 35 anni e 343 giorni il più anziano campione di Wimbledon nell’era Open dopo Arthur Ashe, vittorioso nel 1975 a 31 anni e 360 giorni. Infatti in 131 anni di storia, solo quattro tennisti hanno vinto dopo aver compiuto 35 anni: Arthur Gore ne aveva 41 quando vinse nel 1909 e 40 quando trionfò nel 1908, Bill Tilden ne aveva 37 quando vinse nel 1930, Norman Brookes e Herbert Lawford ne aveva 36 rispettivamente nel 1914 e nel 1887. E in più Federer stabilisce il nuovo record assoluto rivincendo Wimbledon a 14 anni dalla prima voltaQuesto Wimbledon è il 19^ torneo dello Slam della carriera, il secondo del 2017 dopo gli Australian Open. Lo svizzero da lunedì tornerà al numero 3 del ranking Atp.

L’addio all’atletica di Bolt. Così superman è diventato uomo…

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La carriera del più grande velocista del mondo finisce con un urlo di dolore, il volto coperto dalle mani e il corpo disteso lungo la pista di atletica. Il superman, dunque, è ridiventato uomo. Per sempre.

Impegnato nella staffetta 4×100 dei mondiali di Londra, Usain Bolt è caduto a terra dopo pochissime falcate. I suoi compagni lo hanno sorretto, consolato, rassicurato. Ma  l’addio dell’atleta degli 8 ori olimpici, degli 11 mondiali e dei record del mondo sbriciolati uno dopo l’altro, non poteva essere più malinconico. Bolt  sognava l’ultimo oro, l’ultimo giro di pista, l’ultimo saluto ai tifosi. E invece ha passato la notte in infermeria a cercare di farsi curare i muscoli che lo hanno tradito. Insomma, la storia del campione giamaicano che ha cambiato i connotati della velocità a suon di record del mondo è finita sabato sera.

Ma negli annali sportivi le sue imprese sono già leggenda. A cominciare da quelle delle olimpiadi di Pechino. Fu lì, a Pechino, che Bolt, guascone fenomenale, si mostrò al mondo. Prima vincendo i 100 metri e stabilendo il nuovo record del mondo: un 9″69 arrotondato per eccesso e dopo aver corso metà gara con un scarpa slacciata; poi dominando i 200 metri con un impensabile 19″30, corso con vento contrario di quasi un metro al secondo. Fu allora che Bolt divenne superman, registrando la massima velocità media con partenza da fermo mai raggiunta da un uomo (36,923 km/h, limite poi superato il 16 agosto 2009 nella finale dei 100 metri piani ai mondiali di Berlino con la media di 37,578 km/h). L’ultimo squillo di Pechino arrivò con la staffetta 4×100. La Giamaica guidata da Bolt, neanche a dirlo, vinse e stabilì il nuovo primato del mondo: 37″10.

Poi replicò i trionfi di Pechino alle olimpiadi di Londra e Rio. Ora saluta i tifosi e il tartan delle piste. Ma la storia dell’atletica è segnata. Per sempre.

davì

Le follie dei club per i gioielli del gol

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Sono cambiate le cifre, ma la valanga di euro che fa girare il mondo del calcio tiene ormai aperto il dibattito da anni. «I giocatori sono troppo pagati» e «non si possono spendere tutti questi soldi per un calciatore» sono le frasi che si ripetono, in loop, una volta nei bar e oggi sui social. Dibattito ravvivato dalle ultime spese pazze del Psg: la Qatar Sports Investment per rinforzare la squadra di Emery – delusa lo scorso anno per non essere riuscita a conquistare non solo la Champions, ma nemmeno la Ligue1, il campionato francese – ha deciso di aprire il portafogli. Un portafogli che eroga soldi come un distributore di benzina. E se in Italia a tener banco è stato il discusso trasferimento di Bonucci dalla Juve al Milan, nel mondo quello di Neymar ha battuto ogni record. Il campione brasiliano, l’ultimo erede di Pelè, Zico e via discorrendo, si è trasferito da Barcellona all’ombra della Tour Eiffel per una cifra davvero mostruosa, ben 222 milioni di euro. Nessuno mai aveva speso così tanto nel mondo del calcio. Guadagnerà nei prossimi 5 anni 60 milioni a campionato, facile fargli i conti in tasca. Il valore del calciatore non lo discute nessuno, così come le motivazioni che lo hanno spinto a uscir fuori dall’ombra di Messi per essere l’unico, vero, grande protagonista altrove. Alla fine, probabilmente, saranno tutti contenti: il Psg potrà coccolarsi un nuovo campione, il giocatore è atteso da una nuova emozionante sfida e il Barcellona con quella somma potrà comprare altri 2- 3 campioni per rinforzare la squadra. In più, aggiungiamo, gongolerà il fisco francese. Anche perché a quanto pare il Psg non ha intenzione di metter freno alle sue spese pazze e ha messo sul piatto altri 180 milioni di euro per strappare il campioncino Mbappè ( cercato pure dal Real Madrid) al Monaco. Un altro funambolo, un altro probabile acquisto a somme mostruose.

C’è da dire che queste cifre esorbitanti stanno caratterizzando il calciomercato dell’ultimo decennio, mai prima ci si era spinti così in alto. Pensiamo ad esempio all’affarone fatto dalla Juventus con la cessione di Paul Pogba. L’asso francese è tornato al Manchester United per 105 milioni di euro e i bianconeri si sono fatti una ragione della sua cessione realizzando una plusvalenza record. Pogba infatti era arrivato in Italia a parametro zero proprio dai Red Devils. Con quella somma, tra l’altro, la Juventus ha potuto finanziare quello che oggi è il trasferimento più costoso nella storia della serie A, ovvero l’acquisto di Higuain dal Napoli per 90 milioni di euro. Un colpo che ha reso ancor più netto il divario tecnico tra i bianconeri e le altre squadre del nostro campionato, che difficilmente possono e potranno permettersi ( forse Milan a parte…) trasferimenti così costosi.

E pensare che una volta in Italia ci si scandalizzava per somme ritenute alte e inique. Pensiamo ad esempio al trasferimento record di Angelo Sormani dal Mantova alla Roma, stagione 1963- 64. I giallorossi sborsarono 500 milioni delle vecchie lire per poter disporre del ‘ Pelè bianco’ ( aveva infatti giocato nel Santos ad inizio carriera), ma l’investimento fu infruttuoso. Dopo appena una stagione, giocata al di sotto delle sue possibilità, infatti Sormani fece le valigie e passò alla Sampdoria. Fece inorridire i napoletani, in un periodo di grandi difficoltà economiche e sociali, l’acquisto di ‘ Mister due miliardi’ Beppe Savoldi nel 1975. Tanto infatti spese il club partenopeo per strappare al Bologna uno dei bomber più prolifici della serie A. Una somma che alla fine fu ripagata non soltanto dai gol del centravanti, ma anche dalla passione dei tifosi che si abbonarono in massa per vedere da vicino ( anche) le prodezze di questo grande campione. Napoli che, negli anni Cinquanta, aveva già visto il presidente Lauro spendere la bellezza di 105 milioni per portare in azzurro lo svedese Jeppson. L’Atalanta, che lo aveva pagato appena 50mila dollari, fu ben contenta anche di assecondare la volontà del giocatore, attirato dal mare e dal clima più mite del Sud Italia. Senza dimenticare poi l’acquisto di Maradona dal Barcellona negli anni Ottanta, 13 miliardi e mezzo delle vecchie lire, una somma mostruosa per l’epoca. Soldi, comunque, ben spesi guardando poi ai risultati.

Tornando ai giorni nostri, chi invece storicamente ha sempre grandi disponibilità economiche è il Real Madrid, e non è un caso che nella top ten degli acquisti più onerosi della storia del calcio il club spagnolo sia spesso presente. Per prendere Gareth Bale dal Totten- ham, ad esempio, il Real non si è fatto alcun problema nello spendere la bellezza di 100 milioni di euro. Così come non se ne è fatti quando ha voluto prendere James Rodriguez dal Monaco per 75 milioni. Chissà se qualche dirigente si è poi mangiato le mani ed ha avuto rimpianti per questa cifra spesa. Rimpianti che nessuno invece avrà mai avuto per i 94 milioni che hanno consentito a Cristiano Ronaldo di accasarsi in Spagna dal Manchester United. Un investimento importante, vero, ma ben ripagato nel corso degli anni, se pensiamo a tutte le prodezze del campione portoghese che hanno portato il Real a vincere più volte il campionato spagnolo ma, soprattutto, quelle Champions League che fanno delle merengues un club leggendario. Anche il Barcellona non è stato da meno: nel 2013 portò in Spagna Neymar dal Brasile per circa 88 milioni di euro, poco meno ha speso per prendere il ‘ Pistolero’ Suarez dal Liverpool. Di Maria, Lukaku, Coutinho e gli altri, poi, varranno poi davvero così tanti soldi? Questo importa poco ai tifosi e agli allenatori, che in fondo chiedono soltanto di veder realizzati i propri desideri. Il calcio di oggi, se ci pensiamo bene, non è poi così diverso da quello di volta. Non ci sono più le lire, le pesetas, i franchi, ma è ( quasi) sempre il dio denaro a muovere tutto.

 

 

Parte il Fantacalcio: siamo tutti presidenti e direttori sportivi

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Serbatoio pieno, automobile carica di ogni grazia di Dio. È Ferragosto, il giorno prediletto per una gita al mare o in montagna, con gli amici di sempre. Quale occasione migliore allora per la tanto attesa asta del Fantacalcio? È uno dei momenti topici dell’estate per i calciofili incalliti, quelli che hanno passato queste settimane a rincorrere l’ultima voce di calciomercato, perché «questo lo vorrei prendere nella mia fantasquadra a tutti i costi». Sullo sfondo mogli e fidanzate che sbuffano, e non per il caldo. Esasperate per una passione che niente e nessuno può ostacolare.

Il Fantacalcio, del resto, fa parte di noi e delle nostre vite ormai da qualche anno. È una sorta di rito del quale non si può proprio fare a meno. E che, specie in questi anni dove ormai la maggior parte delle persone non fa altro che guardare lo schermo di un telefonino con l’indice teso per ‘ scrollare’, facendo uno sfrontato paragone con i riti religiosi dei quali ci parlava Emile Durkheim, è in fondo uno dei modi migliori per rafforzare la coesione sociale tra persone che fanno parte di uno stesso gruppo e che, proprio per questo motivo, condividono interessi comuni e il più delle volte – anche status sociale. Perché, nel bene o nel male, si trascorrono delle ore insieme. Stesi su un telo in spiaggia, oppure seduti più o meno compostamente attorno ad un tavolo, questo è un fattore sicuramente secondario. Certo, c’è anche chi decide di isolarsi – o ha una compagnia non appassionata di calcio – e di partecipare ad uno dei tanti concorsi che vengono proposti dai giornali (Gazzetta dello Sport in primis) e dai siti specializzati. Ma questo è un altro discorso.

Il Fantacalcio è ormai maggiorenne da un pezzo, è nato nel 1990 da una idea di Riccardo Albini. Guardando a quello che negli Stati Uniti era un semplice passatempo per gli amanti del baseball, Albini iniziò a pensare ad un regolamento, a stilare la lista dei giocatori e cominciarono così a crearsi le prime fantasquadre. Il vero boom il Fantacalcio ovviamente lo conobbe nel momento in cui fu ospitato sulle pagine della Gazzetta dello Sport ( 1994), raccogliendo un successo di pubblico inatteso. Un numero di partecipanti che è continuato a crescere esponenzialmente nel corso degli anni, ancor di più – logico – quando con l’avvento di internet ogni appassionato di calcio ha potuto concorrere contro ‘ rivali’ sparsi in ogni angolo dello Stivale, fruendo anche di appositi portali che raccolgono e divulgano pure statistiche alle quali prima si interessavano soltanto i maniaci del pallone. Le regole? Diciamo che nel corso degli anni sono state un po’ modificate e adattate anche al “contesto”. Quando si gioca in gruppo, ad esempio, si può modificare il budget iniziale ed eventualmente proporre delle interessanti varianti. Sembra quasi di stare in un’aula della Camera a discutere di un emendamento. Ogni giocatore, ad ogni modo, ha a disposizione un budget iniziale da gestire con la massima oculatezza. L’obiettivo è quello di ogni direttore sportivo, vale a dire costruire una rosa di calciatori ( generalmente 23 o 25) con i crediti a disposizione. Portieri, difensori, centrocampisti e attaccanti: bisogna cercare prima di tutto di scegliere dei giocatori che siano sempre titolari nella loro squadra di club, che magari abbiano dei buoni voti e che riescano a conquistare dei bonus ( assist e gol). Allo stesso modo bisogna essere bravi a non scegliere calciatori fallosi, che penalizzano il risultato finale con punti di malus ( ammonizioni, espulsioni, rigori falliti). È un gioco semplice, direbbe qualcuno. Potrebbe sembrare, ma così non è. Ad ogni modo, se è vero che l’Italia è il paese dei 50 milioni di commissari tecnici, perché non provate anche voi? All’asta del Fantacalcio, il vero momento clou dell’estate, rientra in scena di nuovo un concetto, quel- lo secondo il quale la vita quotidiana non è altro che una rappresentazione teatrale, dove ogni persona indossa dei costumi di scena e una maschera. Il sociologo canadese Erving Goffman non ha mai giocato al Fantacalcio, ma forse oggi si farebbe una risata nel guardare chi, forte della sua preparazione calcistica, cerca di mostrarsi davanti agli amici come un presidente in erba. Oppure chi, per non far lievitare troppo i prezzi, simula in maniera goffa di disinteressarsi assolutamente dei giocatori della sua squadra del cuore.

Le scene sono trite e ritrite, perché ormai all’interno di un gruppo ci si conosce a menadito, ma forse il bello è proprio questo. Il banditore d’asta ha in mano il listone, con tutti i calciatori della serie A, e li chiama ad uno ad uno, aspettando un’offerta. L’amicizia, in queste ore di battaglia vocale e psicologica, non conta più nulla, l’importante è accaparrarsi i pezzi migliori, come negli affari veri. Ci si parla sopra, vola via qualche imprecazione, ma si ride di gusto e si trascorrono delle ore indimenticabili, che si ricorderanno volentieri in futuro, in attesa ovviamente dell’asta di riparazione invernale. È per questo motivo che il Fantacalcio è così amato in Italia, è un filo sottilissimo e leggero che lega tante persone, le accomuna, le tiene vicine anche quando sono lontane centinaia di chilometri.

E nel giorno di Ferragosto, se passerete una giornata in gruppo, ecco un’ultima raccomandazione: tra bibite e salsicce, tra birre e panini e l’immancabile anguria non dimenticate di portare con voi la ‘ vecchia’ carta, la lista dei giocatori e una penna. Potrebbero tornavi utili. E buon divertimento.

 

 

Il sogno di Vienna: a piedi sulle orme del Grand Tour di Goethe

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Il 28 agosto inizierà il Grand Tour di Vienna Cammarota. Alle 6 di lunedì partirà da Karlovy Vary, capoluogo della Repubblica Ceca, per fare a piedi, prima donna al mondo, a 67 anni, il viaggio che lo scrittore tedesco Johann Wolfgang von Goethe fece in calesse nel 1786, dando vita ad un Gran Tour che durò 2 anni, come avevano fatto altri giovani intellettuali dell’epoca. Saranno 2500 i chilometri percorsi, e la meta finale sarà Paestum, non lontano dal suo paese d’origine, Felitto. Attraverserà Monaco, Innsbruck, le Alpi bavaresi e quelle austriache – 23 i comuni in cui transiterà prima di giungere al confine italiano il 20 settembre. Poi inizierà la parte italiana dell’impresa, sino al sud del nostro Paese e porterà l’Europa nei luoghi dell’Italia centrale colpiti dal sisma.

Vienna Cammarota, salernitana, nata l’ 8 settembre del 1949, è una Guida ambientale escursionistica, coordinatrice delle Guide Aigae Campania. Vienna attraversò il Madagascar in kayak nel 2004, la Patagonia nel 2006, l’Amazzonia nel 2011, il Nepal e Tibet a piedi nel 2015, Israele e Palestina a piedi nel 2014 e ben 230 Km dal Cilento al Gargano in Italia nel 2016. Ecco dunque la nuova impresa con cui “sfiderà” 231 anni dopo lo scrittore e drammaturgo tedesco. Goethe attraversò, infatti, la Boemia, la Baviera, parte dell’Austria, arrivò a Trento, a Torbole sul Lago di Garda, poi Verona, Padova con la visita all’Orto Botanico, Vicenza dove vide le opere del Palladio e del Tiepolo, vide Venezia, Ferrara, Cento, Bologna con la Santa Cecilia di Raffaello e la visita alla Torre degli Asinelli ed ancora Firenze, Roma, dove soggiornò a lungo nella dimora di Via del Corso che oggi è sede del Museo, Napoli dove incontrò Gaetano Filangieri, Pompei, Torre Annunziata, Caserta, Portici, Ercolano, Sorrento, Paestum. Goethe concluse il viaggio in Sicilia ma ha raccontato anche l’Umbria e l’Abruzzo. In Abruzzo Vienna incontrerà le popolazioni del centro Italia colpite dal terremoto dell’anno scorso. A Civitella Alfedena arriveranno ben 4000 guide ambientali escursionistiche, da tutta Italia, per salutarla. Vienna poi proseguirà ancora il suo viaggio fino a Paestum.

«Sto studiando in tedesco il diario di Goethe – racconta al Dubbio Vienna Cammarota – e conducendo attività capillare di ricerca per vedere se quelle locande che ospitarono il grande scrittore e filosofo tedesco, durante il suo viaggio, esistono ancora. Le sto cercando». Non sarà un viaggio facile comunque: Vienna Cammarota dovrà affrontare la montagna in alta quota, boschi, foreste, strade veloci, pioggia, caldo e freddo: «Temo il Brennero. Una parte mi è sconosciuta e questo spaventa ma allo stesso tempo affascina. C’è anche la possibilità che molti rifugi siano chiusi e non posso di certo andare in paese, prendere la chiave e tornare indietro. Sulla mia strada troverò sicuramente anche pioggia e grandine, comunque il ritmo sarà di circa 25 – 30 km al giorno, a piedi. Saranno 23 le città che attraverserò al di fuori dei confini italiani, 50 i giorni di cammino, di cui 21 all’estero, con una media di 8 ore al giorno». Camminerà per tre mesi circa, con in spalla uno zaino di 10 chili, nessun gps a indicarle la strada, ma solo la memoria delle mappe, senso dell’orientamento e una bussola. Non avrà una tenda da campeggio ma spera che la gente la accolga in casa per darle un tetto sotto il quale dormire. Seguirà anche una particolare alimentazione: «Eliminerò i latticini mantenendo il parmigiano di cui mi nutrirò. Mangerò frutta secca, berrò molta acqua introducendo un poco di sale quando il fisico sarà particolarmente stanco».

Ma i pericoli non sono solo quelli della natura: «Sono spaventata dall’indifferenza delle persone nei territori che attraverserò. Facendo sopralluoghi in Repubblica Ceca ho riscontrato molta indifferenza al dialogo. Voglio semplicemente conoscere le tradizioni delle città e parlarne».

Durante il tour, Vienna, infatti, terrà un suo diario, intervistando in inglese, tedesco e italiano le persone che incontrerà sul suo cammino. Proprio in un momento storico in cui è facile chiudersi e arroccarsi alle proprie tradizioni, diffidando degli altri, Vienna Cammarota lancia un messaggio di comunanza, che testimonierà mettendo sul suo zaino le bandiere di tutte le Nazioni che attraverserà: «Il viaggio non è spostarsi ma camminare, conoscere, dialogare, incontrare. Il mio sarà un messaggio all’Europa ed alle donne, alle quali voglio far capire che noi possiamo. Non abbiamo età e non dobbiamo chiuderci nella nostra età. Ultimamente l’Europa è senza valori sociali ed invece io amo i valori sociali e non ci sono differenze. Se ognuno rispetta le proprie tradizioni possiamo benissimo convivere. Vorrei ricordare Giuseppina Pasqualino, la 33enne artista milanese che nel 2008 partì da Milano per raggiungere la Turchia indossando il vestito bianco da sposa per tutto il tragitto e purtroppo fu trovata poi morta. Lei ha voluto sicuramente difendere determinati valori andando oltre i confini delle Nazioni e le culture. Credo che Goethe abbia voluto dimostrarci anche questo partendo nel 1786 e dando vita ad un mondo nuovo, ad un’epoca innovativa. Temo che la gente non capirà il senso del mio viaggio. Ed il senso del mio viaggio sarà la fratellanza». E allora in bocca al lupo, Vienna Cammarota.

 


Il Cio: i videogiochi sono uno sport. Presto alle olimpiadi

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I videogiochi sono uno sport, e forse presto sbarcheranno perfino alle Olimpiadi: sembrava una battuta, sta diventando realta, stando alla storica svolta del Cio. Il comitato olimpico internazionale per la prima volta ha dichiarato che i cosiddetti ESports sono vere e proprie discipline agonistiche, insomma sport veri e propri; e chissà quante mamme dovranno cominciare a rivedere le proprie abitudini, senza poter più dire ai propri figli che il tempo speso joystick in mano e troppo e troppo poco utile. “Ho squajato la playstation” fu la candida ammissione di Francesco Totti su come passasse il tempo libero nel ritiro azzurro: d’ora in poi non sarà più simbolo di passioni che dividono, ma la parola d’ordine di tanti aspiranti campioni. Quella del Cio è di fatto un’apertura storica verso un mondo che ha un fatturato che quest’anno supererà la barriera dei cento miliardi di dollari, cifra stratosferica alla quale il Comitato non può evidentemente rimanere indifferente.

I massimi dirigenti dello sport mondiale, dopo un summit a Losanna, hanno fatto capire che tale fenomeno non può più essere ignorato, nonostante il presidente Thomas Bach si fosse detto in passato contrario; per le Olimpiadi non è ancora arrivato il momento di imitare quanto avverrà ai Giochi Asiatici del prossimo anno in Indonesia, dove i videogiochi faranno parte a pieno titolo del programma, ma e questa la direzione verso cui si marcia. Del resto è il Cio stesso a scrivere in un comunicato che “gli-esports” sono in forte crescita, in particolare fra i giovani dei vari paesi, e anche di questo, per rendere sempre più attraenti le Olimpiadi agli occhi delle nuove generazioni, si deve tener conto. Non e un caso che a Tokyo 2020 ci saranno nuove discipline come surf, skateboard ed arrampicata, e il prossimo passo potrebbe essere proprio quello dei videogiochi.

Lo avevano ipotizzato, nei mesi scorsi, alcuni membri del comitato organizzatore locale di Parigi dei Giochi 2024 poi assegnati alla capitale francese. Adesso viene messo per iscritto, nella nota diffusa da Losanna, che “gli e-sports competitivi possono essere considerati un’attività sportiva, e i giocatori coinvolti si preparano e allenano con un’intensità che può essere paragonata a quelle degli atleti delle discipline tradizionali”.

Basterà, aggiunge il Cio, sottoscrivere la carta olimpica, dotarsi di strutture per combattere il doping, varare norme contro il rischio scommesse. Intanto, si avvieranno presto colloqui con l’industria” del settore. Lo sport virtuale appassiona molti campioni reali: chissà che Usain Bolt, che ama ‘Fifa 18’ e le precedenti edizioni del calcio virtuale, non possa esibirsi in un clamoroso ritorno ai Giochi, anche se non più in pista. Rafa Nadal potrebbe continuare a vincere set e game anche se elettronici, facendo del suo hobby una nuova professione. E che dire di Neymar, che oltre al “futebol” pratica da sempre gli “e-sports”? Nel frattempo uno degli uomini di punta dell’Italia Team targato Coni potrebbe diventare Alessandro Avallone, in arte Stermy, da oltre un decennio uno dei giocatori di videogame professionisti più forti e famosi a livello internazionale. Se i videogiochi sono sport, allora il futuro e questo.

Roger l’alieno

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Mai nessuno come lui, oltre il tempo e la storia Roger Federer conquista il suo ventesimo slam a quasi 37 anni. A fargli da spalla stavolta c’è il gigante croato Marin Cilic che lo impegna per tre ore e cinque set (6-2 6-7 (5) 6-3 3-6 6-1 ) prima di inchinarsi alla leggenda del tennis. Il campo centrale di Mebourne lo acclama come una divinità e lui, Roger, incredulo che si commuove come fosse il suo primo titolo.

“Questa è una favola che si realizza, se mi diverto ancora a giocare è grazie a chi mi segue e mi ama” ha detto lo svizzero prima di alzare al cielo il trofeo degli Australian Open. E di prepararsi ad affrontare un 2018 che potrebbe scrivere altri  luminosi capitoli della sua infinita saga tennistica. Da come sta giocando nell’ultimo anno (tre slam conquistati sugli ultimi cinque) nessun sogno sembra proibito. A cominciare dalla conquista della prima posizione mondiale (è a pochissimi punti dallo spagnolo Nadal)

Anche perché i suoi avversari sembrano smarriti, dai loro problemi ma anche dall’astro intramontabile di questo highlander dal sorriso gentile e capace di un tennis lunare, che ribalta le leggi della fisica, leggero come una farfalla e pungente come un’ape per citare un altro grande campione dello sport.

I tre alfieri del tennis muscolare moderno, Djokovich, Murray e Nadal sono afflitti dagli inevitabili problemi fisici e consumati dal loro approccio iper atletico che superata la trentina gli sta facendo pagare dazio; solamente Nadal, sembra trovare risorse mentali e fisiche per restare in cima in particolare sulla terra battuta, mentre tra i giovani c’è un preoccupante vuoto di talenti.

 

Intanto Roger l’alieno guarda l’orizzonte, si gode lo sguardo attonito di chi appena un anno fa lo dava per finito e si prepara a tagliare nuovi traguardi. Oltre il tempo e oltre la storia. Non solo quella del tennis.

 

 

Pippo Tortu, il ragazzino brianzolo che ha battuto la leggenda Mennea…

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Sono bastati 9 secondi e 99 centesimi per entrare nella storia della velocità italiana. Ci ha pensato Filippo Tortu, un ragazzino brianzolo col sangue sardo, che dopo 39 anni ha cancellato il 10,01 di un certo Pietro Mennea. E’ successo venerdì notte sulla pista del Municipal Sports Center Moratalaz di Madrid.  Tortu sa benissimo cosa ha combinato: “Sognavo di battere il record di Mennea fin da bambini – ha raccontato – ma lui è la leggenda…”. Tortu, dunque, ha migliorato di due centesimi il precedente limite che apparteneva da ben 14.171 giorni a Mennea. La “Freccia del Sud” corse in 10″01 il 4 settembre del 1979 allo stadio Azteca di Città del Messico in occasione delle Universiadi. Filippo con 9″99 è il terzo bianco d’Europa di sempre ad essere sceso sotto i 10″. Prima di lui ci sono riusciti il francese Christophe Lemaitre che nel 2010 corse in 9″98 e l’azero naturalizzato turco Ramil Guliyev sceso a 9″97 nel 2017. Tortu proviene da una famiglia votata all’atletica. Nonno Giacomo nel secondo dopoguerra era riuscito a correre i 100 metri in 10″9, papà Salvino – velocista sardo trapiantato in Lombardia e allenatore del figlio – è stato un buono atleta a livello giovanile per poi ritornare alle competizioni da master. Il fratello maggiore Giacomo lo scorso anno fermò i crono su 10″73. La carriera di Filippo si è aperta nel 2014 ai trials per i Giochi olimpici giovanili dove, seppur salendo sul podio, mancò la qualificazione sui 100 metri centrata successivamente per la doppia distanza. Infortunatosi ad entrambe le braccia all’arrivo dei 200 alle Olimpiadi under 18 in Cina, il giovane sprinter lombardo l’anno successivo realizzò il primato italiano allievi dei 100 con 10″33 (polverizzato il 10″49 di Giovanni Grazioli che resisteva dal 1976) e dei 200 in 20″92. Tesserato per la Riccardi Milano, Pippo dalla Brianza nel 2016 ritocca di un centesimo un altro antico primato nazionale che resisteva dal 1982 (Pavoni), quello juniores dei 100 correndo due volte in 10″24 a Savona. Dopo l’argento ai Mondiali under 20 in Polonia, nel 2017 altri primati italiani juniores, sui 60 indoor (6″64) e sui 100 metri (10″15), e l’oro continentale juniores a Grosseto. Quest’anno su una pista amica come quella di Savona, il finanziere originario di Costa Lambro, frazione di Carate Brianza, ha fermato i crono su 10″03 diventando il secondo sprinter più veloce di sempre in Italia. Fino al 9,99 di venerdì notte.

Mondiali di nuoto, il Settebello vince l’oro. Battuta la Spagna

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La pallanuoto italiana trionfa ai mondiali coreani e aggiunge un altro oro al medagliere azzurro. Il Settebello, agli ordini dell’allenatore Sandro Campagna, hanno conquistato il quarto titolo Mondialie. L’Italia torna a vincere l’oro mondiale a distanza di 8 anni dall’ultima volta e ora va aggiornato il palmares dei primi posti ai Mondiali: 1978, 1994, 2011 e 2019. Gli azzurri dopo aver eliminato in semifianle l’Ungheria per 12-10 hanno battuto per 10-5 la temibile Spagna con partita chiusa già nel terzo quarto. Per i neo campioni iridati spiccano le doppiette di Luongo e Dolce. Ed è arrivata anche un’altra medaglia dal nuoto. Il merito per la seconda volta di Simona Quadarella. La 20enne romana dopo l’oro sui 1500 stile ha conquistato l’argento negli 800 stile battuta solo dalla fenomenale americana Ledecky.

Felice Gimondi, il campione che sfidò il “Cannibale” Merckx

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Il mondo dello sport e non solo piange per l’improvvisa scomparsa di Felice Gimondi. Il campione  è morto nel pomeriggio di venerdì per un malore accusato a Giardini Naxos. Avrebbe compiuto 77 anni il prossimo 26 settembre. Gimondi, in vacanza assieme alla famiglia, era ospite di una struttura alberghiera di Giardini Naxos, la località turistica del messinese nei pressi di Taormina. Quando si è sentito male stava facendo il bagno. Nello specchio d’acqua è intervenuta anche una motovedetta della Guardia Costiera, ma tutti i tentativi di rianimarlo da parte dei medici sono stati inutili. Era sofferente di cuore e secondo i soccorritori sarebbe morto per un infarto. Professionista dal 1965 al 1979, è stato uno dei sette corridori ad aver vinto tutti e tre i grandi Giri, cioè Giro d’Italia (per tre volte, nel 1967, 1969 e 1976), Tour de France (nel 1965) e Vuelta a España (nel 1968). Sulla sua strada trovò il “Cannibale” Eddy Merckx, secondo in assoluto – dopo Anquetil – a completare la Tripla Corona nei Grandi Giri, campione del Mondo nel 1973 a Barcellona, padrone del pavé di Roubaix e delle insidie della Sanremo. Nelle quindici stagioni da professionista vinse in totale 141 corse. Dopo il ritiro Gimondi fu direttore sportivo della Gewiss-Bianchi nel 1988, e nel 2000, presidente della Mercatone Uno-Albacom, la squadra di Marco Pantani. E proprio Merckx  ha commentato la notizia: «Stavolta perdo io. Perdo prima di tutto un amico e poi l’avversario di una vita. Abbiamo gareggiato per anni sulle strade l’un contro l’altro ma siamo diventati amici a fine carriera. L’avevo sentito due settimane fa così come capitava ogni tanto. Che dire, sono distrutto».

La serie A si ferma ancora per il virus. Rinviata Juventus-Inter. Il disappunto dei tifosi

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Altra domenica senza calcio al Nord. Rinviato a mercoledì 13 maggio 2020 il big Juventus-Inter e altre quattro partite di Serie A: Milan-Genoa, Parma-Spal, Sassuolo-Brescia e Udinese-Fiorentina. Slitta di una settimana anche la finale di Coppa Italia. Ad annunciarlo è la Lega Calcio che comunica lo stop con una nota: «Visto l’articolo 1. co. 1 lett. A) del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 25 febbraio 2020 ”Ulteriori disposizioni attuative del decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”; considerato il susseguirsi di numerosi interventi normativi urgenti da parte del Governo per rispondere a questa straordinaria emergenza a tutela della salute e della sicurezza pubblica; il Presidente della Lega Nazionale Professionisti Serie A comunica che sono rinviate le seguenti gare della 7a giornata di ritorno del Campionato di Serie A TIM, inizialmente previste a porte chiuse come da Comunicato Ufficiale n. 191 del 27 febbraio 2020: Juventus-Inter, Milan-Genoa; Parma-Spal, Sassuolo-Brescia, Udinese-Fiorentina», si legge sul comunicato dirmato. «La data di recupero delle predette gare è fissata per il giorno mercoledì 13 maggio 2020. La Finale di Coppa Italia sarà conseguentemente programmata per il giorno mercoledì 20 maggio 2020». Ma la decisione di rinviare il big match della 26esima giornata, Juventus-Inter, ha immediatamente visto la reazione dei tifosi, soprattutto quelli di fede nerazzurra, che con gli hashtag #CampionatoFalsato e #FermiamoStaPagliacciata sono entrati in tendenza su Twitter. A non piacere al tifo interista il calendario serratissimo che aspetta la squadra di Conte che deve già recuperare la sfida contro la Sampdoria. Nel caso in cui l’11 di mister Conte dovesse arrivare fino in fondo in Coppa Italia ed Europa League, nel mese di maggio si troverebbe a giocare 8 gare dal 3 al 27 maggio senza considerare la sfida contro la Sampdoria il cui recupero non è stato ancora fissato. Sul fronte milanista, è un tifoso particolare a mostrare la propria contrarietà: Matteo Salvini. «Rinviare #JuveInter a maggio, che senso ha??? Porte aperte o porte chiuse, per me si doveva giocare e offrire agli Italiani qualche ora di serenità e al mondo un’immagine di tranquillità», scrive su Twitter. Furioso anche l’alleato interista di Salvini, Ignazio La Russa: «La decisione di rinviare a maggio la partita Juve-Inter senza neanche la condivisione della Lega e di tutte le squadre interessate, costituisce oltre che una palese ingiustizia sportiva capace di falsare il campionato», dice l’esponente di Fratelli d’Italia. «Resta il sospetto che il rinvio finisca col favorire chi lo ha pur lecitamente chiesto a discapito degli altri. E se ormai non è modificabile la decisione del rinvio sarebbe più opportuno sospendere tutte le partite in programma domani e far slittare di una settimana il calendario». Tutto si può fermare. Ma non il pallone.

La Bundesliga batte il coronavirus: squadre in campo dopo 66 giorni

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Riparte il calcio in Germania, dopo 66 giorni di stop, con il poker del Borussia Dortmund nel derby della Ruhr. In un Signal Iduna Park deserto, la squadra di Lucien Favre ha travolto con un 4-0 lo Schalke 04. A segno Erling Haaland, prima rete post stop coronavirus, doppietta di Raphael Guerreiro e rete di Thorgan Hazard. Superiore per tutta la partita, il Dortmund non ha lasciato che l’assenza dei circa 80.000 tifosi fosse un handicap nel cammino verso il titolo. Il protocollo anti Covid-19 è rispettato alla perfezione: nessun abbraccio, né stretta di mano, allenatori in mascherina e nessun tifoso all’esterno dello stadio. Il Borussia si trova ora ad una sola lunghezza dal Bayern Monaco, impegnato contro l’Union Berlino. A fine partite i calciatori del Dortmund hanno festeggiato la vittoria sotto la curva vuota, omaggiando virtualmente i tifosi che hanno assistito alla partita da casa. Frenata della terza in classifica, con il Lipsia che ha pareggiato in casa 1-1 con il Friburgo, mentre il Wolfsburg ha vinto fuori casa con l’Augsburg per 2-1. Vittoria dell’Hertha per  3-0 in casa dell’Hoffenheim, e infine 0-0 tra Fortuna Dusseldorf e Paderborn.  

Il bollettino medico: Zanardi stabile ma in «gravissime condizioni»

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Permane «in gravissime condizioni» lo stato di salute di Alex Zanardi, 53 anni, ricoverato nel reparto di terapia intensiva del policlinico universitario Santa Maria alle Scotte di Siena, a seguito dell’incidente stradale avvenuto ieri pomeriggio nel comune di Pienza, provincia di Siena. Lo rende noto il nuovo bollettino medico, il terzo, diffuso dalla direzione sanitaria dell’ospedale ricordando che «il paziente, sottoposto ad un delicato intervento neurochirurgico» nella serata di ieri, «e successivamente trasferito in terapia intensiva, ha parametri emodinamici e metabolici stabili». L’ex pilota di Formula 1 è stato sottoposto anche ad intervento maxillo-facciale per i traumi e le ferite riportate al volto e alla testa. Alex Zanardi, aggiunge il bollettino medico, è «intubato e supportato da ventilazione artificiale mentre resta grave il quadro neurologico». «Al momento le condizioni sono gravi ma stabili, lui è arrivato da noi con questo trauma cranio-facciale importante, con un fracasso facciale e una frattura affondata delle ossa del frontale. È stato operato per “rattoppare”. Al momento tutti i numeri sono buoni, ovviamente neurologicamente non è valutabile, pur rimanendo la situazione grave», spiega il neurochirurgo Giuseppe Olivieri. L’atleta, al momento, è «tenuto in coma farmacologico». Le indagini sull’incidente stradale si stanno concentrando, oltre che sulla dinamica, che appare ormai abbastanza chiara, anche e soprattutto sulle modalità di svolgimento della manifestazione “Obiettivo 3” che vedeva la partecipazione di una decina di corridori disabili. L’autista del camion contro cui è andato a sbattere l’ex pilota di Formula 1 non aveva assunto né alcolici né sostanze stupefacenti. Il 44enne autotrasportatore, residente in provincia di Siena, alla guida del mezzo pesante di proprietà del padre, è stato infatti sottoposto all’alcoltest e al prelievo per la ricerca di sostanze stupefacenti. I carabinieri della compagnia di Montepulciano (Si), coordinati dalla Procura, stanno pertanto verificando se la corsa con l’handbike, su cui viaggiava lo stesso Zanardi, si sia svolta in idonee condizioni di sicurezza. Secondo quanto ricostruito, la decina di atletici paraplegici stava percorrendo la Strada provinciale 146, in Val d’Orcia, scortati da una macchina della polizia municipale di Pienza (Si). Proprio da Pienza dovevano raggiungere San Quirico d’Orcia, dove Zanardi avrebbe dovuto incontrare il sindaco. I carabinieri dovranno accertare se fosse stata predisposta un’ordinanza con eventuali limitazioni al traffico per garantire la sicurezza della manifestazione. A quanto risulterebbe, la questura di Siena non sarebbe stata informata della manifestazione. Il sostituto procuratore Serena Menicucci ha chiesto di sapere anche se la presenza dei vigili urbani fosse stata autorizzata a fare da scorta ai ciclisti.

Giudice sportivo, Juventus-Napoli 3-0 a tavolino

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Juve-Napoli 3-0 a tavolino e un punto di penalizzazione in classifica per i partenopei. Questa la decisione del giudice Sportivo Mastrandea che ha comunicato di aver applicato «le sanzioni previste dall’art.53 NOIF per la mancata disputa della gara in oggetto». Secondo il giudice sportivo «il reclamo proposto dal Napoli in ordine alla regolarità della gara è da ritenersi inammissibile, trattandosi di strumento chiaramente dedicato alla contestazione di gare disputate».  

Il figlio del Campionissimo: «Mio padre Fausto Coppi è il ciclismo che vive nel mio cuore»»

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«Lo sa che sua madre e mia madre erano amiche?». Inizia così la chiacchierata con Faustino Coppi, figlio del campionissimo e di Giulia Occhini, alla vigilia dell’ultima tappa del Giro d’Italia che si concluderà domani a Verona. «Ma davvero? Mi spieghi questa cosa», risponde. «Sua madre da ragazza ha vissuto per alcuni anni con la famiglia a Montoro Superiore, in provincia di Avellino, e lì tra le sue amiche c’era mia madre. Conservo gelosamente una foto con dedica. Mi ha sempre raccontato che con suo padre ritornò a trovare gli amici». E Faustino a questo punto mi chiede: «Me la manda quella foto?».

Finito il siparietto amarcord ritorniamo al Campionissimo. Portare il cognome Coppi è complicato, le ha mai pesato?

Assolutamente no. Con il passare degli anni è sempre stato un piacere e un onore per me avere questo cognome, che evoca sentimenti, ricordi e ammirazione nelle persone che incontro.

Il mito di suo padre vive quotidianamente con lei?

Abito nella casa di Novi Ligure, dove lui ha vissuto con mia madre. Ogni cosa mi parla di lui. Ci sono i suoi cimeli, le sue cose: le foto, le coppe, i trofei. In particolare mi piacciono molto le foto con le dediche scritte a mano che inviava quando era lontano per gareggiare. Tutto mi parla di lui, è un ricordo continuo, malgrado siano passati tanti anni dalla sua morte. Il mio primo ricordo che ho di lui è di quel giorno che lo portarono in ospedale in barella. Davanti alla porta di casa mi disse: “papo, fai il bravo, ubbidisci alla mamma”. Poi più nulla. Quando vado in giro nelle manifestazioni sportive ci sono tante persone che me ne parlano e la cosa mi fa enormemente piacere.

Il nome di suo padre è legato in maniera indissolubile a quello di Gino Bartali. Ha conosciuto “Ginaccio”?

L’ho visto varie volte in qualche manifestazione sportiva alla quale eravamo stati invitati, ma non c’è mai stata occasione di parlargli. Lo ricordo a un Giro d’Italia, quando era già avanti con gli anni, alla guida di un maggiolino decappottabile con la scritta Cicli Bartali: ha seguito tutta la corsa tra l’entusiasmo dei tanti appassionati. Aveva una tempra incredibile e un fisico eccezionale. In seguito ho avuto modo di fare per due volte il Giro con suo figlio Andrea, che purtroppo è scomparso. Con lui abbiamo parlato delle cose che raccontava il suo papà, episodi sportivi ma anche di vita quotidiana. Ha avuto la fortuna di stargli accanto di più rispetto a me.

Qualche giorno fa nella tappa sul Mortirolo c’è stato un altro scambio di borraccia che qualcuno ha paragonato a quello tra Coppi e Bartali.

Direi che sono queste le cose che fanno grande il ciclismo e che rimangono nella mente dei tifosi. Anche l’atteggiamento del giovane ciclista che ha vinto proprio la tappa del Mortirolo ( Giulio Ciccone, ndr.) è un altro episodio molto bello. Moriva di freddo, batteva i denti, ma è riuscito ad arrivare fino in fondo e a vincere. Si è infilato la giacca e si è coperto con un foglio di giornale. Mi ha fatto pensare a tante belle immagini del ciclismo del passato.

Che cosa rappresenta per lei il ciclismo?

È la vita della mia famiglia e un po’ la mia, anche se non mi occupo di ciclismo ma di costruzioni. Il ciclismo per me è passione, ricordi: è una questione di cuore.

Suo padre lo ha perso quando aveva 4 anni nel 1960, ha vissuto con suo madre. Che cosa può dire di lei?

Lei viveva esclusivamente nel suo ricordo. Quando è mancato è stato per lei un colpo terribile. Aveva dato tutto per vivere con lui e improvvisamente se l’è visto portare via. Per pochi anni vissuti insieme a mio padre ha rivoluzionato la sua vita e quella di tutta la sua famiglia. Mia mamma mi raccontava soprattutto la vita del mio papà in famiglia, piuttosto che quella sportiva. Lei, tranne che andare a qualche premiazione, non si intrometteva mai nella sua attività sportiva.

Le ha mai detto che cosa l’ha fatta innamorare di Fausto Coppi?

No. Mi raccontò che gli chiese un autografo e lui le rispose di rivolgersi alla sua segretaria. Lei allora replicò: “Se avessi voluto l’autografo della sua segretaria l’avrei chiesto a lei”. Forse è stata questa risposta a colpire mio padre e l’ha spinto a interessarsi a lei. Chi lo sa?

In questo rivedo le cose che mia madre mi ha detto della sua amica Giulia: soprattutto la sua determinazione.

Confermo. Era donna molto decisa, con un carattere forte.

Alessandra De Stefano, la giornalista Rai che ha seguito per anni il Giro d’Italia, ha scritto nel 2011 “Giulia e Fausto: la storia segreta dell’amore scandaloso che spaccò l’Italia”.

Ha fatto un bel lavoro, preciso e documentato. Restituendo bene il rapporto tra mio padre e mia madre. Anche lei in quel libro ci ha messo il cuore.

Dopo Fausto Coppi c’è stato o ci sarà un altro come lui?

Per le emozioni che ha regalato ai tifosi e anche a me forse Marco Pantani: è stato un campione che poteva far sognare gli italiani. È stato protagonista di imprese memorabili che sono rimaste nella memoria di tutti quelli che amano il ciclismo.

 

«Gridai al gol per un fallo laterale. Un uomo mi fulminò, era Andreotti»

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Ho sempre considerato lo sci quella cosa per cui ci si arrampica in cima a una montagna solo per poterne scendere, e il calcio quella cosa in cui ci sono 22 uomini che corrono appresso a una palla. Il calcio resta per me la più assurda delle passioni umane, ma confesso che ognintantonhomil dubbio che si tratti di una lacuna. Con la passione che ho per la politica mi sfuggono le metafore ardite, CR7 ha smesso di essere una sigla astrusa quando ho scoperto che si tratta del proprietario dei miei alberghi preferiti in Portogallo, e se non ho mai corso il rischio di Berlusconi al suo primo G7 ( no, l’Uruguay round non è un torneo calcistico sudamericano) son costretta a voltar pagina, cambiare bar e marciapiede o, peggio, ammutolire quando sento nominare cose e persone che riguardano quella roba lì.

L’idea di Orwell che il calcio è una prosecuzione della guerra con altri mezzi – e dunque lo è anche della politica- mi affligge: che ci sia un pezzo di mondo che sfugge alla mia capacità e volontà di comprensione?

Non è colpa mia. Ho avuto un trauma infantile: all’età di 12 anni venni portata da mio padre che non ne era frequentatore abituale allo stadio, per il semplice motivo che gli erano stati regalati due biglietti in Tribuna d’Onore all’Olimpico, addirittura per una partita della Roma. Io avevo con me un libro da leggere ( sorvolo sul titolo che è meglio: lettura inadatta a una dodicenne, infatti non capivo un accidenti).

E a un certo punto, mentre sentivo che lo stadio si stava infervorando, persi la concentrazione, sollevai gli occhi dal libro, guardai lo sterminato campo verde, vidi una palla che veniva malmenata verso la porta e urlai con quanto fiato avevo in gola “goal!”. Non era un goal, ma il peggio fu che il signore anzianotto, bruttarello e con la gobba seduto giusto davanti a noi si voltò, mi guardò in tralice dagli occhiali a forma di schermo da televisore e sibilò “porta male!”. Era Giulio Andreotti, per fortuna: mio padre mi trascinò via, consenziente, nell’intervallo del primo tempo. E io decisi all’istante che di calcio non avrei più voluto saperne nulla.

Una soglia di ignoranza consapevole deve essere consentita, a qualunque umano. Io ho sentito la mia vocazione prestissimo: avrei ignorato il calcio, e cercato strenuamente di conoscere tutto quel che potevo di tutto il resto dello scibile umano. Non sono sola. Quando c’è il derby, bellissime conversazioni con gli unici tre tassisti romani che si disinteressano del pallone come me ( e che sono dunque anche gli unici tre al lavoro). Selezione rapidissima al primo incontro, basta dire “non mi piace il calcio” ( una valida alternativa all’osservare se il convenuto ha i calzini lunghi o corti). Domeniche pomeriggio libere, anche da frastuoni, e così pure i mercoledì i lunedì etc. Quando ci sono i mondiali, andare negli Stati Uniti ( l’ho fatto), o farsi chessò un giro dell’Islanda in barca ( l’ho fatto).

Tutto questo per dire che chi sostiene che “di calcio le donne non capiscono nulla” è delle donne che non ha mai capito un accidenti. E forse neanche di calcio: gente che crede ancora che si tratti di tattiche e strategie, e non di correre appresso a un pallone per tirar calci.

 

«Le donne non capiscono». Ma per i maschi saccenti Ronaldo era una riserva

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L’ assunto beffardamente ostile, il fiat lux anzi il fiat tenebrae, fu quello di Collovati, ex stopper dell’Inter e del Milan che fu: «Quando sento una donna, poi la moglie di un calciatore, parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco. Una donna non capisce come un uomo». La valanga di insulti, più o meno social, sta ancora tracimando ben oltre i protagonisti, ora che la nazionale femminile dà buona prova al Mondiale, con consensi di critica e di pubblico.

Va detto che certo tifo maschilista è rimasto a Cartagine, e chi frequenta uno stadio lo sa: le tifose sanno anche non essere signore, più aggressive e sboccate dei maschi, certe doctoresse Jekill and Mrs Hide, che all’occorrenza menano come energumeni e, dunque, orgogliosamente in grado di analizzare un 4- 4- 2 e se Ranieri sia peggio di Di Francesco. Lo stereotipo della fidanzata/ moglie che se ne frega dei 22 fessi che corrono dietro ad una palla è stato demolito da anni.

Però gli haters maschilisti si scandalizzano e deprecano lo stop di tette al posto di quello di petto ( meccanicamente la cosa può essere facilmente contestata), sostengono che il calcio femminile sia di una noia mortale, e giù insulti. Che non siano alla bassezza si vede dal fatto che non sputino mai a terra né liberino il naso col turbo soffio. E poi è uno scandalo che, segnato il gol, nessuna si tolga la maglietta. Solo quei geni di Lercio sanno scherzarci: «Perché ti sei vestita come me? Partita di calcio femminile finisce il rissa».

Non ci sono solo Collovati e Costacurta, innervositi dalle piroette della bonona Wanda Nara che usa il marito Icardi come un pupazzo. Anche Mughini non ha nascosto il suo razzismo intellettuale: «Non molte donne capiscono, io ne conosco due o tre, a parte la grandissima Emanuela Audisio, che di calcio se ne intendono davvero». La D’Amico è da anni che discetta su Sky, e casomai è meglio non divaghi: disse che Son, l’attaccante sudcoreano del Manchester United, «non viene da un regime democratico». Le ricordarono che la dittatura è in Corea del Nord, si attenesse alla tattica.

I maschi intenditori sono maxi esperti anche in corbellerie sesquipedali. Non si salva nessuno. Mario Sconcerti, per esempio, è passato alla storia in vista della finale di Cardiff Real Madrid- Juve ( 4- 1) quando sentenziò: «Alla Juve Ronaldo farebbe la riserva». Per non parlare delle previsioni di Caressa e dei suoi imitatori, procacciatori di superlativi assoluti nelle telecronache drogate, dove promuovono campioni che poi sbagliano gol da principianti.

La coscia ormai corta della sinistra, Alba Parietti, nota: «Capisco che in un anno in cui la nazionale italiana femminile va ai mondiali di calcio e gli uomini no, a qualcuno possano girare le scatole». Tra i fenomeni maschilisti va assolutamente ricordato il presidente della Lega Nazionale Dilettanti, Belolli, che esclamò: «Basta dare soldi a queste quattro lesbiche». Negò di essere sessista. Tra il milione di twitterologi segnaliamo il seppur educato Davide: «Direi di smetterla con le battute sessiste su queste che non sanno neanche parcheggiare».

Amen. Il boom di ascolti per la vittoria contro l’Australia ha inviperito la massa ipercritica degli uomini sapiens. Le donne se ne fregano. Ma c’è una Simona nel web, dal cuore nerazzurro, da segnalare: «Comunque le francesi in 36 minuti hanno fatto più cross decenti che tutti i terzini dell’Inter in questa stagione». Si vede che capisce poco, doveva aggiungere anche quelli del Milan.

 

Lisa Bartali ricorda «Bici, piste ciclabili imprese sportive…» L’ è tutto giusto, tutto da rifare

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«La diocesi di Assisi rende omaggio alla memoria di nonno con una messa presieduta dal vescovo monsignor Domenico Sorrentino, proprio nella cappella privata di famiglia, donata nel 2018 al “Museo della memoria, Assisi 1943- 1944” dalle mie cugine Gioia e Stella, figlie di Andrea. Mio nonno è ancora molto popolare e portiamo con orgoglio il nome Bartali. Io e mia cugina Gioia, le più attive tra i cinque nipoti, siamo spesso chiamate in tutt’Italia, perché gli vengono intitolate parchi, scuole, piste ciclabili, spettacoli e strade. Mi fa molto piacere che il sindaco di Firenze, Dario Nardella, abbia lanciato la “operazione Bartali” per mobilità della fase 2: 12 chilometri di nuove piste ciclabili». Lisa Bartali, figlia di Luigi, parla con orgoglio del nonno e di tutto quello che rappresenta. L’idea del sindaco Nardella la trovo perfetta per Firenze, io mi muovo sempre in bici in città, una delle più motorizzate d’Italia. Ho lavorato per parecchi anni nella moda in centro e la bici è sempre stato il mio mezzo di locomozione. Rispetto a quello che accadeva prima della pandemia e alluso esagerato delle macchine in città penso che mio nonno avrebbe sbottato ‘ L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare’».

Lisa è nata tra biciclette, trofei medaglie, libri e vhs sul ciclismo al punto che ha aperto “Biciclettami. it”, il blog sul ciclismo urbano, diario di escursioni tra arte, eventi, poesia e racconti, con una linea di accessori e abbigliamento di ispirazione retrò. Con una sezione dedicata a Gino Bartali con ricordi di famiglia, interviste ad ex gregari, eventi sportivi e culturali inerenti alla sua figura. «Non è da tutti aver imparato ad andare in bici – racconta – con un maestro come Gino Bartali. Mi insegnava come posizionare bene i piedi sui pedali “con la punta sul pedale, non di tacco”, urlava da lontano». Il nonno è sempre presente nel blog di Lisa. E, in concomitanza con giornate particolare, le piace sottolineare quello che è stato Gino Bartali. Per l’ultimo 25 aprile ha scritto: “Il suo contributo silenzioso si intreccia nella storia della resistenza italiana… Che la sua figura ci sia da guida, ora più che mai in questa nostra epoca, e che la sua storia sia divulgata con il massimo rispetto oggi e nel tempo che verrà”.

«Ho avuto la fortuna di potermelo godere abbastanza, quando è morto avevo 15 anni. Ha sempre seguito il ciclismo e gli piaceva stare nell’ambiente. Nonno era abbastanza riservato in famiglia, raccontava delle sue imprese sportive ai suoi fan. Ricordo che un pomeriggio, mentre guardavano un documentario sulla rivalità con Fausto Coppi lui mi disse: “Eravamo rivali, ma anche amici”…».

Diego Maradona, la sua icona per sempre nell’immaginario collettivo

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C’è una foto che da sempre mi accompagna da anni quando penso a Maradona: lui di spalle, che sale per la prima volta le scale verso il San Paolo con centinaia di fotografi pronti a immortalarlo. Sale felice per salutare ottantamila dei suoi tifosi, che negli anni diventeranno milioni. La foto è di Luciano Ferrara, uno dei fotografi napoletani più bravi con i quali ho lavorato. Me la mostrò in redazione e ne rimasi fulminato. Da allora per anni tra le mie mani sono passate tantissime foto di Diego, da impaginare su quotidiani, settimanali, riviste. Ho “passato” e titolato centinaia di articoli di grandi firme del giornalismo sportivo italiano che raccontavano il Pibe: da Sandro Ciotti a Enrico Ameri, da Nando Martellini a Mimmo Carratelli, da Paolo Valenti a Gian Paolo Ormezzano, da Roberto Ciuni a Mario Orfeo, da Carlo Verna ad Antonio Corbo. Le sue immagini hanno fatto la fortuna di tantissime pubblicazioni. Bastava pubblicare la copertina con Maradona per vendere almeno diecimila copie in più. Con lui sono cresciute generazioni di bravissimi colleghi che hanno descritto le gesta del Pibe. Ho collaborato alla realizzazione degli inserti speciali de Il Mattino, realizzati dopo la conquista dei due scudetti. E anche in quelle occasioni non posso dimenticare l’imbarazzo nello scegliere le foto giuste, perché Diego era fotogenico e qualsiasi posa, da fermo o in gioco, era perfetta per restituire il campione. Ho avuto la fortuna di lavorare a Napoli proprio nell’era Maradona. Io irpino come il mio amico Pier Paolo Marino, secondo di Italo Allodi prima e poi direttore generale del calcio Napoli, abbiamo condiviso la nostra fede calcistica per l’Avellino con la grandezza del Napoli di Diego Armando Maradona.

Qualche anno fa, in una trasmissione argentina, lo stesso Maradona ricordò con affetto quello che, negli anni Ottanta, era noto come il derby campano della Serie A: «Il mio derby era contro l’Avellino», disse rievocando le sfide con il connazionale Ramon Angel Diaz in una trasmissione con un’altra leggenda del calcio: Gabriel Omar Batistuta.

Maradona ha ispirato anche tanti musicisti e registi. Paolo Sorrentino e Emir Kusturica su tutti. L’attore Marco Leonardi, che ha interpretato Diego nel film di Marco Risi “Maradona – La mano de Dios” del 2007, in una recente intervista mi confidò: «Ho interpretato tanti personaggi, ma per quel film ero molto davvero emozionato. Entrando in quel ruolo ho lavorato moltissimo e ho potuto comprendere la grandezza e l’unicità del grandissimo campione »

 


«Battaglie legali tra club di calcio? Meglio trattare…»

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«Il calcio solo per un’élite non conviene neanche all’élite stessa». Parola di Carlo Rombolà, avvocato esperto di Diritto sportivo che rassicura circa il timore che la nuova Super League possa creare un divario economico incolmabile nel calcio tra società maggiori e minori.

La nuova competizione privata tra i club più blasonati d’Europa, della quale per l’Italia faranno parte Juventus, Inter e Milan, sarà finanziata dalla banca americana JP Morgan, che investirà inizialmente nel nuovo format tre miliardi e mezzo di euro «per supportare i piani d’investimento infrastrutturale e per fronteggiare l’impatto della pandemia». Una cifra monstre, da dividere al momento tra le dodici squadre fondatrici, che ha fatto saltare sul divano investitori e azionisti, tanto che ieri mattina a poche ore dall’annuncio della neonata competizione il titolo in Borsa della Juventus ha guadagnato il 13,5 per cento.

«La Super League sarà organizzata e gestita da un’apposita società partecipata da ciascun club in egual misura – si legge in una nota diffusa dalle squadre partecipanti – All’avvio e a seguito della commercializzazione dei diritti audiovisivi relativi alla competizione, è previsto che i club fondatori ricevano nel complesso un contributo di importo netto indicativamente pari a tre miliardi e mezzo di euro, che verrà erogato in un’unica soluzione; questa somma, che sarà ripartita tra i club fondatori, sarà resa disponibile attraverso adeguati strumenti di finanziamento sottoscritti da primarie istituzioni finanziarie internazionali».

Tra le quali appunto JP Morgan, che potrebbe versare altri tre miliardi come anticipo sui ricavi, con alcuni analisti che stimano l’immissione nella casse delle società di un totale di 10 miliardi nel lungo periodo, cioè il triplo rispetto a quanto garantito dalle attuali coppe europee. Dal valore iniziale della Super League ogni club partecipante avrebbe un incasso annuo garantito pari a oltre 250 milioni, circa il doppio di quanto guadagna il vincitore della Champions League. E i campi di provincia? Quegli Atalanta-Psg che assomigliavano molto a dei Davide contro Golia? Il Chievo che arriva quarto e gioca i preliminari? Quella in atto è senza dubbio una rivoluzione, che presuppone analisi approfondite, anche in campo economico. Se non altro perché Uefa e Fifa, di comune accordo con le leghe nazionale tra cui la FIGC, ragionano ora su cause da 60 miliardi di euro da presentare ai dodici club, minacciando i giocatori di vietare la loro partecipazione a Europei e Mondiali. In particolare, la Fifa ha definito la creazione della nuova competizione «contraria ai nostri principi», tuttavia dopo essere accusata di corruzione per aver assegnato i mondiali al Qatar, dove migliaia di operai stanno morendo in silenzio nella costruzione dei nuovi stadi.

Di certo non si può negare che i club “scissionisti” siano spinti da motivi economici ma, spiega Marco Bellinazzo, giornalista del Sole24Ore, «il calcio dei ricchi si è imposto da dieci anni ed è inutile il piagnisteo di queste ore a rimpiangere un passato in cui il merito è già ridotto ai minimi termini». A patto però che la Super League riesca a «redistribuire i ricavi ed evitare la desertificazione». Più facile a dirsi che a farsi, tanto che l’amministratore delegato del Sassuolo, Giovanni Carnevali, ha detto che «così si rischia di ammazzare la Serie A».

Secondo Rombolà invece il nostro campionato non morirà, anche se il «calcio di oggi è certamente diverso» da quello del secolo scorso. «A inizio pandemia dicevamo che l’emergenza sanitaria avrebbe stravolto gli equilibri economici e contrattuali del mondo del calcio anche ad alti livelli, rendendo questo sport più povero – argomenta al Dubbio – Di conseguenza era naturale pensare che i maggiori club potessero riorganizzarsi per superare senza morti e feriti questo periodo, attirando maggiori sponsor con competizioni più ricche e virtuose». A chi paventa la morte dei club minori, risponde dicendosi «abbastanza certo» che ci saranno rimedi per sopperire alla futura ed eventuale diminuzione di introiti. «Chi si è organizzato per sopravvivere a un flagello così dirompente come una pandemia globale – ragiona Rombolà – si curerà senz’altro di non lasciar indietro i fratelli minori».

Eppure la Uefa non ci sta, tanto che il suo presidente, Alexander Ceferin, ha bollato come «una delusione» il comportamento di Andrea Agnelli, futuro vicepresidente della Super League e appena dimessosi dal vertice dell’Associazione dei club europei. Tuttavia, difficilmente si arriverà a un confronto in tribunale. «Da una parte ci sono dodici club che si staccano, dall’altra una federazione, l’Uefa, che si sente esautorata dei suoi poteri e che risponde con una dichiarazione parimenti dirompente – conclude l’avvocato – Ma non credo al discorso degli strascichi giudiziari, piuttosto a una lunga trattativa. Perché da un contenzioso ci perderebbero entrambi, e lo sport ha tempi veloci con necessità di competere ancora più rapide».

Superlega, uno tsunami che travolge il calcio europeo

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Il pallone rotola via verso l’ignoto. La Superlega annunciata da 12 grandi club europei (Milan, Arsenal, Atletico Madrid, Chelsea, Barcellona, Inter, Juventus, Liverpool, Manchester City, Manchester United, Real Madrid e Tottenham) è infatti lo scisma più lacerante nella storia della palla rotonda, uno strappo totale, roba da guerra secessione.

I campionati nazionali, le competizioni continentali e i tornei tra le nazionali rischiano di venire sconquassati. Una Davos del pallone che ribalta il principio di competizione aperta e fondata sul merito e che sta letteralmente terremotando le istituzioni del calcio europeo. Le leghe nazionali, le federazioni, l’Uefa e la Fifa dopo lo choc iniziale minacciano durissime ritorsioni contro i secessionisti, da multe salatissime fino alla stessa esclusione delle squadre e dei loro tesserati da tutte le competizioni ufficiali.

Esclusioni che potrebbero essere operative fin dai campionati in corso, stravolgendo tutti i risultati sportivi dell’attuale stagione e le coppe europee di quella prossima.A parte i diretti interessati, desiderosi di recuperare i miliardi perduti a causa della pandemia di Covid, quasi tutti i protagonisti la pensano come l’immaginifico direttore sportivo del Bologna Walter Sabatini per il quale la Superlega «è un progetto raccapricciante, un ritorno al feudalesimo che disorienta e sopprime ogni pensiero sul diritto di tutti di fare calcio». Gli stessi tifosi delle squadre promotrici non è affatto detto che accolgano con favore l’epocale cambiamento. Ad esempio i gruppi organizzati della curva nord dell’Inter hanno bocciato la Superlega che pure vedrebbe i nerazzurri protagonisti.Ma la vicenda sconfina il rettangolo di gioco e scuote anche il mondo della politica che insorge unanime contro la grande fuga in avanti delle squadre più ricche e blasonate del vecchio continente.

Chi l’avrebbe mai detto: sovranisti e liberali, progressisti e conservatori uniti nella lotta contro questa nuova Spectre che vuole sequestrare lo sport più seguito del pianeta .Il presidente francese Emmanuel Macron è stato il primo esprimersi contro quella che definisce un «minaccia del principio di solidarietà e merito sportivo», promettendo che si impegnerà a fondo per mantenere «l’integrità delle competizioni federali, nazionali ed europee». Ancora più duro, com’è nel suo stile, il premier britannico Boris Johnson il quale afferma che farà «di tutto» per fermare il progetto. Dovrà scornarsi principalmente contro le sei squadre inglesi presenti nel board delle 12 grandi.

Oltre che sulla compattezza del governo potrà però contare sulla reazione dei fans disgustati dalla Superlega; i caldissimi tifosi del Liverpool fanno sapere che in segno di protesta toglieranno tutti gli striscioni dalla curva Kop di Anflield in segno di protesta contro il loro club e la sua «avidità».Anche il premier ungherese Viktor Orban, non certo un paladino dell’uguaglianza dei diritti, si scaglia contro la Superlega sfoggiando una retorica : «Ci opponiamo con fermezza, la grandezza di questo sport appartiene a tutti, i ricchi non possono appropriarsene».

Di umore completamente opposto il mondo della finanza, entrato in fibrillazione dopo l’annuncio dei 12. Ieri il titolo del Manchester United, che è quotato a Wall street, è schizzato in avanti dell’8%, mentre la Juventus registrava alla borsa di Milano un balzo di oltre il 15%.L’idea di una Lega aperta soltanto a squadre di prestigio e con in calendario tutte partite di cartello è infatti un modo per far lievitare i profitti a dismisura, dagli incassi ai diritti televisivi ai contratti con gli sponsor e difficilmente i suoi promotori vi rinunceranno a cuor leggero. Secondo le prime proiezioni i ricavi della Superlega supererebbero di quattro volte di quelli dell’attuale Champions League.Ma i toni apocalittici delle ultime ore, la contrapposizione assoluta tra i secessionisti e le istituzioni del calcio mondiale che sta andando in scena delineano un climax molto più studiato di quanto sembri.

E più probabilmente l’inatteso strappo di domenica notte è soltanto un ballon d’essai, una prova generale per testare le reazioni della politica e abituare il grande pubblico alla rivoluzione che verrà. Di sicuro non oggi.E di sedersi al tavolo dei negoziati con il governo del pallone in una posizione di forza.Anche perché, oltre alla comprensibile indignazione degli esclusi, i promotori devono tener conto del gran rifiuto da parte di top club come i tedeschi del Bayern di Monaco e del Borussia Dortmund e soprattutto dei francesi del Paris Saint Germain, per nulla intenzionati ad aderire al progetto. Tanto che la stessa Juve ieri sera sfumava i toni affermando che la Superlega «non è un progetto da realizzare nell’immediato». Sarà.

Josè Mourinho, uno Special one a Roma

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Quando quel nome, Josè Mourinho, accostato alla panchina della Roma è stato battuto e lanciato dalle agenzie, l’Italia calcistica si è divisa in almeno tre fazioni: la prima, quella giallorossa, colta alla sprovvista è stata immediatamente sopraffatta da un sentimento di commozione misto all’incredulità; la seconda, quella nerazzurra dell’Inter, ha visto passare davanti ai popri occhi i giorni felici  del triplete, quando allenatore, squadra e tifoseria erano un’unica cosa. Perché Conte avrà pure strappato lo scudetto alla Juve, ma il pedigree rimane bianconero e quella sua antipatia un po’ piagnona non ha nulla a che vedere con la geniale irriverenza dello special one.

Poi c’è il resto del mondo calcistico italiano che ha immediatamente pensato: è un bollito e con la Roma non combinerà niente di buono.

Insomma, l’arrivo di Josè sulla panchina della Roma ha biucato il mainstream informativo, costringendo capiredattori e cronisti sportivi a cambiare in corsa prime pagine e articoli. Perché Mou è lo special one e il calcio italianoda oggi  sarà meno noioso…

 

Da Londra a Roma, Draghi vuole spostare la finale degli Europei

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«Ho intenzione di adoperarmi perché la finale non si faccia in un Paese dove i contagi stanno crescendo rapidamente»: il presidente del Consiglio, Mario Draghi, è entrato in tackle sulla questione della finale degli europei, in programma a Wembley, in un Paese, la Gran Bretagna, dove si registrano oltre 10mila casi di Covid al giorno.

Lo ha fatto durante la conferenza stampa con la cancelliera Angela Merkel a Berlino, rispondendo a una domanda sull’eventualità di trasferire la finale da Londra a Roma proprio per la ripresa della pandemia nel Regno Unito. Semifinali e finale degli Europei sono in programma a Wembley il 6, 7 e 11 luglio.

Secondo indiscrezioni l’Uefa potrebbe chiedere un trasloco in una città più sicura e si è parlato di Budapest, anche se Roma potrebbe essere un’alternativa. Il problema principale è la quarantena di 10 giorni che il governo britannico attualmente impone a chi arriva da altri Paesi e che metterebbe a rischio la presenza di 2.500 ospiti Vip (tra cui i preziosi sponsor) alla finalissima. Il governo di Boris Johnson dovrebbe concedere un’esenzione ma questo ovviamente scatenerebbe le polemiche. Più in generale c’è il problema della sicurezza per le migliaia di tifosi stranieri che partirebbero per Londra per assistere alla finale.

Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano, ha spiegato all’Agi che giocare le partite finale degli europei in Gran Bretagna «sicuramente non è una grande idea». «La variante delta ha fatto incrementare i casi, la circolazione è virale è più elevata, insomma è un rischio», ha osservato. A suo avviso «forse sarebbe il caso addirittura di sconsigliare i tifosi di andare in Inghilterra a seguire le partite, tanto più che allo stadio, va da sè, i rischi crescono con migliaia di persone assiepate. È stato un errore, si sarebbe dovuto rivedere il calendario: d’altra parte sono i primi Europei itineranti, non sarebbe stata una scelta drammatica come il rinvio o lo spostamento dell’intera manifestazione. In Italia ci sono dieci volte meno casi al giorno, forse si sarebbe potuta fissare qualche altra partita qui, o in altri Paesi a bassa circolazione».

Federica Pellegrini, la forza fragile del talento straordinario

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Di lei io ricordo questa cosa qua. Berlino 2014, Europei. Ai 600 metri – la staffetta è la 4 x 200 stile libero, e Federica Pellegrini è la quarta a tuffarsi, dopo il cambio con Chiara Masini Lucetti – abbiamo quasi cinque secondi di distacco. Cinque secondi sono chilometri, in vasca, una distanza siderale. La svedese Sarah Sjoestrom, la più brillante delle loro nuotatrici, ha fatto una terza frazione strepitosa: voleva mettere quanta più acqua possibile fra loro e noi.Noi, siamo le quattro ragazze della staffetta, nell’ordine Alice Mizzau, Stefania Pirozzi, Chiara Masini Lucetti, e Fede, tutte del 1993, meno Fede, la più “anziana”, del 1988.

Tutti hanno paura di Fede. Viene dall’anno sabbatico, viene da tira e molla con fidanzati e allenatori, ma tutti ricordano quando strappò a Franziska von Almisick, una delle più belle e brave nuotatrici di sempre, il record del mondo ai mondiali di Melbourne, 2007. Sì, erano sette anni fa, ma fa ancora paura Fede. All’ultimo cambio, il distacco perciò è quattro secondi e cinquantuno decimi. Potremmo salutarle con un fazzoletto, come si faceva una volta quando i piroscafi si staccavano dal molo e si restava a terra. Siamo tutte a terra, le svedesi si sono staccate dal molo con il loro piroscafo. Le francesi sono terze, a un secondo da noi, per dire. Le altre, non pervenute. Poi arriva Fede e fa il miracolo. Fede scende in acqua. Le svedesi hanno lanciato Stina Gardell, una che è pure specialista dei misti. Cioè, le svedesi hanno messo in campo una strategia. Tenere la gara per le prime due frazioni, staccarsi alla grande con la Sjoestrom, e poi mantenere il vantaggio con la Gardell. Perfetto.Solo che Fede se ne impipa della strategia svedese.

Quando Fede si tuffa, i telecronisti commentano che la Svezia è chilometri avanti, che il compito della Pellegrini è difficilissimo. La Fede non sente i commenti. Lei nuota. Ai primi cinquanta la Gardell passa con quattro secondi e dodici decimi di vantaggio, ha perso qualcosa ma la manica è bella larga. I telecronisti commentano che è difficile anche solo pensare di rientrare sulle svedesi. La Fede non pensa. Lei nuota. Ai secondi cinquanta il distacco è ancora diminuito, a tre secondi e 84 decimi. Pensate e contate. Una si tuffa, poi contate quasi quattro secondi, e poi tocca a te. E quando la prendi? Le francesi sono terze a più di cinque secondi dalle svedesi. Dietro stanno a litigare per il terzo posto. Capirai. Alla fine della terza vasca da cinquanta siamo scesi a due secondi e cinquantatre decimi di svantaggio. Fede ha limato ancora. Un poco, ma ha limato ancora. Ultima vasca. Fede arriva quasi alle caviglie della Gardell. I telecronisti commentano che il vantaggio è sempre enorme, che siamo argento virtuale. Ci stanno dando lo sciroppo per la tosse. Fede non prende lo sciroppo. Lei nuota. Mancano trenta metri, forse venti.Io non so cosa sia successo, se la Gardell ha buttato l’ancora al momento sbagliato o d’improvviso le braccia le sono diventate di piombo. So che stavano lì, lei davanti, la Fede dietro. Poi stavano lì, fianco a fianco, lei e la Fede. E poi, gli ultimi dieci metri, la Fede ha messo il turbo e la Gardell ha sentito l’onda che la spostava. Grande Fede. Scrivete nell’albo, signori, prego. Berlino 2014, Europei. Era tanto tempo fa, certo.

Oggi, dopo avere conquistato la quinta finale olimpica nei 200 stile libero – prima donna al mondo e l’unica insieme a quel motoscafo fuoribordo di Michael Phelps, nei 200 farfalla («Sì, ma lui l’ha vinta», ha precisato Fede) – la Pellegrini ha detto che l’ufficio medaglie è chiuso. Cinque olimpiadi: seconda a Atene 2004, oro a Pechino 2008, quinta a Londra 2012, quarta a Rio 2016. E ora Tokyo. E non parlatele di Parigi 2024. Non lo dice per scaramanzia, o per risparmiarci, a noi suoi adoratori, una delusione. Ne è convinta.

In vasca nella finale, ci sarà l’australiana Ariarne Titmus, che Fede dà vincente (si è qualificata per la finale con il miglior tempo: 1’54”82, Fede ha il settimo: 1’56”44), che quando lei sedicenne saliva sul podio ad Atene, argento, 27 agosto 2004, aveva tre anni.Ci sarà la cinese Junxuan Yang (quarto tempo: 1’55”98), che di anni ne aveva solo due. Per dire. E non è che queste cose non pesano. Pesa anche che le Olimpiadi siano state spostate di un anno per via della pandemia. Non è solo una questione del fisico – è la testa, gli allenamenti, i regimi di vita, la tensione, il carico e le aspettative dei tifosi, della Federazione, lo staff (che ha ringraziato a lungo). «Il mio corpo mi chiede i minuti di ritorno con gli interessi. Non era l’obiettivo minimo, questo era il mio vero obiettivo per questa olimpiade. Era – ha aggiunto Fede – un obiettivo difficile perché il livello si è alzato molto».

La verità è che lei, la sera prima, ci aveva fatto penare in batteria: si era qualificata alla semifinale col brivido, quindicesimo e penultimo tempo. «Non mi sono risparmiata, l’ho proprio sbagliata, sono stata sotto ritmo e non sono più riuscita a uscire, ma sono strafelice di quello che ho fatto oggi. Ho imparato a pormi mete raggiungibili» – dice Fede. Prima di tuffarsi nella vasca della semifinale aveva pianto – essere arrivati fin qua e la possibilità di vederla sfumare, questa quinta finale che la consacra alla storia. E invece no. «Ci proverò fino all’ultimo metro». E l’ha fatto. Poi, ha pianto di nuovo. Lei, la Divina, così umana.Finale stasera mercoledì 28 luglio alle 3.41 in Italia (le 10.41 ora locale). «Io tifo per la linea rossa però», ha detto Fede. È quella del record che è ancora suo: 1’52”98. Lo ha fatto al Mondiale del 2009, a Roma e vorrebbe proprio che restasse suo. Noi ci saremo. Come sempre, con Fede.

L’addio di Valentino Rossi: «Mi ritiro, è stato tutto molto bello»

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Ventisei anni di carriera, 423 gare disputate (di cui 115 vinte), 235 podi e 9 titoli mondiali. Classe 1979: sono questi i numeri di Valentino Rossi, il vero e proprio mattatore del motomondiale, che oggi ha annunciato il ritiro dalle corse nella Moto Gp. «Ho deciso di fermarmi a fine stagione», ha annunciato il 42enne pilota in una conferenza stampa in vista del GP di Stiria, in Austria, «è dura prendere questa decisione, avrei voluto correre per altri 25 anni ma è arrivato il momento di dire basta. Purtroppo, quindi, questa sarà l’ultima metà stagione come pilota MotoGP».

Il Dottore ha iniziato la carriera nel 1996 con l’esordio nella 125 e che lo ha portato a vincere nove titoli mondiali, distribuito fra tutte le classi. «Credo che negli sport i risultati facciano la differenza. Penso che sia la strada giusta. È stata difficile perché avrei l’opportunità di gareggiare nel mio team assieme a mio fratello, mi sarebbe piaciuto ma va bene così», ha aggiunto. «Abbiamo ancora metà stagione, credo sarà più difficile quando si arriverà all’ultima gara, non posso lamentarmi della mia carriera». «Dall’anno prossimo la mia vita cambierà. Non correrò con la moto, una cosa che ho fatto più o meno per gli ultimi 30 anni, è stato molto, molto bello».

«Il futuro? Adoro correre con le macchine, forse appena meno rispetto alle moto. Penso che correrò con le auto ma non c’è ancora una decisione presa. Mi sento un pilota e lo resterò per tutta la vita», ha detto Vale. «La decisione l’ho presa nel corso della stagione, all’inizio pensavo di decidere durante la pausa estiva e ho fatto così», ha spiegato il Dottore. «Volevo continuare, ma come ho detto bisognava capire se ero abbastanza veloce. Purtroppo i risultati sono stati inferiori alle aspettative. Gara dopo gara ho iniziato a riflettere. L’anno scorso volevo provarle tutte, ora va bene così: sono in pace con me stesso, non sono felice perchè avrei voluto gareggiare per altri 20 anni lo stesso».

L’Italia da leggenda vola nell’Olimpo. E il sogno continua

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Lorenzo Patta, Lamont Marcell Jacobs, Fausto Desalu, Filippo Tortu. Segnateveli, questi quattro nomi, perché di loro ci ricorderemo nei decenni a venire, quando ripensando all’incredibile Olimpiade di Tokyo 2020 torneranno alla mente istanti immortali. Di loro ci ricorderemo perché sono arrivati lì dove nessuna staffetta italiana era mai arrivata prima, a toccare con mano la gloria d’Olimpia vincendo al cardiopalma la finale della 4×100 maschile.

L’hanno fatto con un solo centesimo di vantaggio sulla Gran Bretagna, un battito di ciglia che spesso divide la gloria dall’oblio e che farà contorcere di disperazione i cugini d’Oltremanica, dopo la finale di Euro 2020 persa ai calci di rigore.

La gara è di quelle che resteranno negli annali dell’atletica leggera: allo start c’è Lorenzo Patta, splendido ventunenne sardo all’esordio in una gara olimpica. Parte bene, Lorenzo, e dopo cento metri corsi in apnea ha il compito non facile di passare il testimone a Lamont Marcell Jacobs, la freccia nata a El Paso, in Texas, ma trasferitosi con la madre sulle rive del Garda quando i suoi piedi erano ancora troppi piccoli per pensare, un giorno, di correre così veloce.

Da vincitore dei 100 metri piani Jacobs è il più atteso, e non delude. Corre la sua frazione staccando gli altri corridori, e quando al suo fianco i giapponesi steccano il cambio lui rimane tranquillo e passa senza problemi il testimone a Fausto Desalu, italianissimo di Casalmaggiore che corre, corre, corre e poi urla a squarciagola «vaiiii» subito dopo aver lanciato Filippo Tortu, brianzolo di padre sardo cui spetta il compito decisivo. «Sta per succedere una cosa», pronostica Franco Bragagna, leggendario telecronista della Rai che abbiamo imparato a conoscere nelle nottate insonni a seguire le imprese dei nostri atleti nella terra del Sol Levante.

Siamo al rettilineo finale, la Gran Bretagna ci affianca, Jamaica, Canada e Cina sono leggermente dietro. A questo punto accade quello che tutti avremmo voluto ma che nessuno di noi si era spinto a immaginare. La tecnica di corsa di Tortu, prima italiano ad abbattere il muro dei dieci secondi nei 100 metri prima dell’esplosione di Jacobs, è perfetta. Macina metri su metri, il suo corpo taglia il vento come solo Pietro Mennea e Livio Berruti sapevano fare. A meno di dieci metri dall’arrivo, il sorpasso decisivo. Il britannico Nethaneel Mitchell- Blake è in affanno, la sua corsa ondeggia. Filippo è statuario. Arrivano al traguardo praticamente appaiati.

Buio.

Il cuore si ferma per un istante che sembra infinito.

Quando Tortu riapre gli occhi ha le mani nei capelli, il boato dell’Italia intera sferza l’aria e arriva dritto allo Stadio Olimpico di Tokyo. Non si rende conto, Filippo, sembra non crederci. Guarda il maxischermo dove la dicitura “Italia: Gold Medal” si staglia lucente nel vuoto degli spalti dove riecheggia “Un’estate italiana: notti magiche” di Gianna Nannini ed Edoardo Bennato. A quel punto, scoppia in un pianto a dirotto.

È il pianto di un’Italia che dopo un anno di mezzo di malattia, chiusura e distanza ha saputo riscattarsi durante un’estate piena d’orgoglio, che è partita dalla nazionale di pallacanestro che batte la Serbia a Belgrado e si conquista il pass olimpico e arriva fino alla magica notte di Tokyo, passando per l’abbraccio tra Vialli e Mancini a Europeo appena conquistato. Ma è anche il pianto di Luigi Busà, oro nel karate – specialità kumitè, che urla «mamma, papà, ce l’ho fatta» subito dopo essere diventato campione olimpico. È il pianto di una marcia tornata fucina di medaglie per il nostro Paese come ai tempi di Ivano Brugnetti e Alex Schwazer, al quale quest’Olimpiade, così come quella di Rio, è stata tolta da una congiura per la quale non ci sarà mai risarcimento. È il pianto incontrollato di Gianmarco Tamberi, che dopo essere salito lì dove arrivano solo gli dèi ha aspettato Jacobs “con due occhi più grandi del mondo”. È il pianto di Vito Dell’Aquila, di Federica Cesarini e Valentina Rodini, di Caterina Banti e Ruggero Tita e dei ragazzi dell’inseguimento su pista. È il pianto del presidente del Coni, Gianni Malagò, che descrive l’Olimpiade di Tokyo 2020 come «la più grande di sempre» dopo il record assoluto di medaglie, meglio di Los Angeles 1932 e Roma 1960. È, infine, il nostro pianto. Se stiamo sognando, vi prego, non svegliateci.

 


«Vi racconto il mio giro d’Italia in bicicletta contro i pregiudizi»

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di ROBERTO SENSI e IVAN LONGO

Lo scorso anno ho compiuto 50 anni e da tempo avevo deciso di regalarmi per il mio compleanno un viaggio. Un viaggio in bicicletta attraverso l’Italia, dall’estremo Nord (Brennero), all’estremo Sud (Portopalo di Capo Passero), per legare il mio luogo di nascita e il luogo di provenienza dei miei avi. Ma non volevo fare solo un viaggio sulla bici volevo fare anche un viaggio interiore, volevo raccontare di un mondo che è sovente nascosto agli occhi della società o che forse la società “perbene” non vuol vedere, il mondo carcerario. È stata un’esperienza faticosa dal punto di vista fisico, lo è stata altrettanto se non di più dal punto di vista umano.

Sono entrato per la prima volta in un carcere, ho sentito chiudersi dietro di me le “sbarre” man mano che passavo, ho sentito il rumore delle chiavi che le serravano, quelle stesse chiavi che in mano agli agenti penitenziari diventavano un sonaglio con cui giocare, un tintinnio che allo stesso tempo ipnotizza e rende chiaro che le “chiavi ce l’hanno in mano loro”. Una sensazione fugace, quanto la mia permanenza “dentro”, ma ancora oggi il senso di oppressione è il ricordo più vivido.

Del mio viaggio del 2020 rimangono gli articoli pubblicati da Il Dubbio, rimangono i video, le foto, ma soprattutto rimangono le persone che ho conosciuto e i rapporti che ho intrecciato, le emozioni che ho provato, rimane la convinzione che a fronte di una grossa parte della società che non si interessa degli ultimi, ci sia uno sparuto gruppo di persone che con entusiasmo e dedizione si dedicano a migliorare le pessime condizioni di vita dei reclusi.

Rimane la convinzione che l’Italia sia un Paese stupendo fatto di gente splendida e generosa e che percorrerla lentamente in bicicletta sia un’esperienza unica, che tutti dovrebbero provare.

Dalle vette delle Dolomiti alle pianure della Padania, alle colline della Toscana e del Lazio, l’Appia Antica e poi l’incontro con il mare a Terracina, la costiera del Cilento, la Calabria e poi la Sicilia, la Sicilia, la Sicilia …. I posti, i profumi, la gente, tutto mi è rimasto nel cuore.

Un’esperienza unica, un modo di comunicare alternativo, la possibilità di puntare le luci della ribalta su argomenti e persone che sovente non hanno voce.

Questo è lo spirito che ci anima per ripartire in un nuovo viaggio con nuovi temi da indagare, nuove persone da conoscere e nuovi posti da scoprire. Lo farò insieme al mio caro amico Ivan, che pedalerà insieme a me, attraverseremo l’Italia percorrendo questa volta la costa adriatica.

Partiremo da Torino e più precisamente dal Museo Lombroso per riportare idealmente le spoglia del brigante Villella a Motta Santa Lucia in Calabria, suo paese natale. Il richiamo storico diventa così l’occasione per raccontare, con interviste, articoli e video, alcuni dei più diffusi pregiudizi che ci condizionano e spesso sono alla base di fatti con rilevanza anche giudiziaria. Ne approfitteremo per incontrare lungo il viaggio persone che nella loro vita si impegnano per affrontare e abbattere i pregiudizi. Saremo i testimoni “pedalanti e narranti” di un mondo, quello dei pregiudizi, che mina i diritti di chi li subisce. Parleremo di intelligenza artificiale e dei pregiudizi insiti negli algoritmi, di omotransfobia, di gender gap, di diritto alla difesa, di braccianti nei campi, di antisemitismo e chiuderemo con l’atavica “questione meridionale”.

Il “viaggio” inizierà il 3 settembre a Torino, faremo tappa a Piacenza, Ferrara, Rimini, Giulianova, Foggia, Matera, Sibari e si concluderà il 10 settembre a Motta Santa Lucia ( Cz).

Sarà un viaggio ecosostenibile, l’unico carburante che consumeremo saranno le nostre forze, che integreremo con laute cene con piatti tipici regionali, possibilmente con materie prime a chilometro 0, il nostro abbigliamento tecnico è prodotto da un’azienda con materiali quasi interamente riciclati, l’autovettura con cui ci seguiranno i due giornalisti Nicola e Lorenzo è ibrida. Insomma ce l’abbiamo messa tutta affinché questo “viaggio” rispecchi i nostri valori e i nostri ideali.